Con passi di pellegrini

VISITA ALL' ALTIPIANO DEL TUR ‘ABDIN IN TURCHIA

Là dove i monti dell’Anatolia precipitano nella fertilissima piana mesopotamica, si fa spazio l’arido altipiano del Tur ‘Abdin, il “monte dei servi [del Signore]”. Costellato di monasteri e villaggi cristiani fin dal IV secolo, quando patriarchi e fedeli vi si rifugiarono cercando scampo dalle scorrerie che devastavano la Mesopotamia, divenne cuore pulsante della chiesa siro-occidentale. Un cuore però sempre trafitto, martoriato da stragi e persecuzioni, fino al grande massacro di inizio ‘900, il seyfo, come lo chiamano, che costrinse la maggior parte dei già pochi superstiti a fuggire. Un cuore che nonostante tutto non ha mai smesso di battere. “È come Gerusalemme – ci ha confidato il vescovo Filoxínos di Mardin – molti di noi se ne sono andati sbattendo la porta, con un misto di paura, tristezza e rabbia, ma la radice che li legava a questa terra era troppo forte”.

È con questa consapevolezza che lo scorso ottobre ci siamo messi in viaggio, tre monaci di Bose (Sabino, Paolo e Gianmarco) e fra’ Paolo Raffaele Pugliese, cappuccino e siriacista, per visitare il piccolo resto di questa incrollabile Gerusalemme.

La prima parte del nostro pellegrinaggio si è svolta nei dintorni di Midyat, al centro del Tur ‘Abdin, e ha avuto come polo il grande monastero di Mor Gabriel, i cui monaci furono tutti eliminati nel 1915. “Ma dove si chiude una porta, Dio ne apre un’altra” – commenta fiducioso uno dei maestri del collegio, facendoci visitare la chiesa di inizio VI secolo, gloriosamente restaurata. Oggi, vivono a Mor Gabriel una quindicina di monache e quattro monaci, compreso Mor Samuel, il metropolita del Tur ‘Abdin. Siamo rimasti con loro tre giorni, partecipando alle preghiere del mattino e della sera, energicamente animate dagli studenti del collegio, e alle cene, concluse dall’immancabile chay sulla terrazza. I monaci ci hanno manifestato la loro accoglienza ciascuno a suo modo: abuna Gabriel conducendoci ogni mattina dopo la preghiera a scoprire (e gustare) una parte diversa del ricchissimo frutteto, e il vescovo dimostrandoci il suo sdegno per la divisione tra i cristiani: “Cristo è uno e noi l’abbiamo diviso in tanti pezzi! Cristo è morto per tutti e ci chiede di amarlo e di amarci gli uni gli altri. E noi non gli obbediamo!”

Partendo da Mor Gabriel, abbiamo visitato alcune delle moltissime chiese della zona. C’è ancora qualche villaggio orgogliosamente cristiano, come Bsorino e Midun, dove abbiamo partecipato ad un vespro affollato di bambini che cantavano a squarciagola e di anziani emigrati che vi passano dei lunghi periodi. Ma la maggior parte delle chiese si trova in villaggi ormai curdi. La scena allora si ripete sempre uguale: ci si avvicina al cancello d’ingresso, lo si trova chiuso, si fa qualche passo indietro, ci si guarda intorno per qualche minuto con aria interrogativa, dopodiché si materializza un custode. Può trattarsi di un uomo o di una donna, di uno degli emigrati che si avvicendano per tenere vivi questi luoghi o di un esponente delle sparute famiglie cristiane rimaste qua e là, di un siriaco o di un curdo musulmano, ma la gentilezza è comune a tutti. I cancelli si aprono e si viene introdotti in chiese sempre antichissime, tutte rilucenti della luminosa pietra locale, che si presta a ricami e intarsi di straordinaria eleganza; un’unica navata sfocia in un arco trionfale da cui troneggia il vangelo, che introduce all’antro raccolto dell’altare; nessuna immagine, salvo i molto più recenti arazzi e tendaggi che nascondono il presbiterio a fasi alterne della liturgia. Qualche chiesa ha assunto i significativi tratti di una fortezza, capace di custodire i suoi figli da scorribande e violenze; tutte hanno un campanile cesellato e un tetto a terrazza da cui lo sguardo si perde tra le brulle colline.

Il Tur ‘Abdin continua ad essere punteggiato anche di monasteri. Alcuni sono tuttora in rovina, come quello dello stilita Mor Lozor o quello, importantissimo per la storia del monachesimo, di Abramo di Kashkar; altri conoscono un febbrile intreccio di preghiera e lavoro manuale grazie alla sinergia di uno o due monaci e di numerosi laici locali o dalla diaspora. Sono i monasteri di Mor Yaqub dSaleh, retto da abuna Daniel, che ci ha accolti con un secchio di malta in mano; di Mor Malke, con i suoi abuna Isho e Aziz, attenti a preservare la serietà spirituale della vita monastica; di Mor Yaqub dQarno, dove abuna Aho ha fatto rifiorire un monastero abbandonato fino a pochi anni fa; infine di Mor Awgin, con la sua magnifica vista sulla Mesopotamia, risorto dalle sue ceneri, materialmente e spiritualmente, grazie ad abuna Yoakim e al giovane abuna David.

Deyrulzafaran, vicino a Mardin, al margine sud-occidentale dell’altipiano, è stato il secondo polo del nostro viaggio. Fondato nel V secolo sopra un antichissimo tempio pagano, il monastero si raccoglie tutto attorno a un elegante cortile squadrato, ed è animato da tre monaci, tra cui il metropolita Filoxínos, e da diversi giovani laici che accolgono i numerosissimi visitatori. “È questa la nostra missione” – commenta il vescovo, che pure custodisce il sogno di un “monastero silenzioso”: la maggior parte dei passanti sono turchi musulmani, per i quali la visita al monastero è forse l’unica occasione di incontro con il cristianesimo, e soprattutto con un cristianesimo locale.

Risalendo a piedi verso le alture circostanti, si raggiungono i suggestivi monasteri rupestri di Mor Yaqub e Yaldat Aloho. In auto invece non sono distanti città significative come Nusaybin (antica Nisibi) sul confine con la Siria, che custodisce le rovine della più importante scuola teologica della chiesa d’Oriente; Dyarbakir, sulle rive del Tigri, tutta di una pietra nera così diversa da quella bianchissima del Tur ‘Abdin; e naturalmente Mardin, con il suo suq, l’antica moschea e una molteplicità di chiese che testimoniano come il cristianesimo locale si sia diviso in una serie di rivoli nel corso dei secoli: caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, armeni. “Perché continuiamo a essere divisi noi cristiani? – ci chiede il caro abuna Gabriel di Deyrulzafaran dopo la liturgia eucaristica domenicale nell’ultimo giorno del nostro pellegrinaggio – “al suo ritorno Gesù Cristo ci prenderà tutti a sberle, a partire da noi cinque: siamo tutti peccatori!” “Se non ci prendiamo cura gli uni degli altri, noi cristiani ci disperdiamo” – gli fa eco Mor Filoxínos, dandoci l’arrivederci con un saluto che più che un congedo è una missione condivisa.