Appartenenza e formazione di sé

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Fratelli, sorelle,

la nostra Regola parla sobriamente della probazione e del percorso di iniziazione che conduce alla professione solenne. Professione che innesta il singolo nel corpo comunitario e lo fa pubblicamente, davanti a Dio e davanti a testimoni. Eppure noi vediamo anche la fragilità di questo impegno. Tanti ne sono i motivi e differenti per ciascuno, radicati in cammini personali e comunitari, storie e biografie differenti. Certo, il percorso formativo che conduce alla professione, ai voti, al sì definitivo, deve proseguire anche dopo la professione altrimenti ben difficilmente il singolo potrà reggere il proprio cammino monastico. Lasciato a se stesso, senza un adeguato accompagnamento, semplicemente impegnato nel proprio lavoro o in alcuni servizi, ogni monaco arriva inevitabilmente a creare aggiustamenti alla propria vita monastica, a vivere in certe nicchie in cui si protegge, a scavarsi piccoli privilegi che diventano poi diritti che vengono imposti agli altri e a cui mai e poi mai rinuncerebbe. O anche semplicemente a vivere in un mondo ripiegato su di sé, un mondo autoreferenziale, incapace di misurarsi con la realtà e di ascoltare gli altri. O ancora, arriva a trovarsi nello smarrimento e nella confusione. Così, il passare degli anni può arrivare a rendere una comunità un luogo di incrocio più che di incontro, di solitudini giustapposte più che di fratelli e sorelle. Ed è chiaro che a quel punto appartenenza è parola pressoché senza senso.

Al tempo stesso l’appartenenza non la si crea con legami di dipendenza, né con soggezioni psicologiche, né con riferimenti affettivi ad un’unica persona, né delegando un altro a darci la vita che non troviamo in noi. L’appartenenza non la si crea neppure con l’etica del dovere, o con il solo ricorso alla forza della volontà, o con una iper-responsabilità che diviene autolesionistica, ma la si crea trovando radici e motivazioni in noi stessi. Un accompagnamento è necessario e un accompagnamento degno di questo nome non può che perseguire due fini, ovvero, la libertà e la soggettività dell’accompagnato, dunque il renderlo soggetto delle sue scelte. Se è vitale una figura che accompagni, e tutta la tradizione monastica ci ricorda che il monaco che pensa di guidarsi da se stesso, infallibilmente fallisce il proprio cammino, è però anche importante apprendere l’arte di autoeducarsi, ovvero di fare di ogni occasione della vita, anche gli incidenti e le crisi, un possibile momento costruttivo, formativo. Lì è importante ricordare, sempre sulla scia della tradizione patristica e monastica, l’immagine dello specchio. Si pensi alla cella specchio del monaco (cosa faccio in cella? Come vivo la solitudine? E il silenzio?) o alla Scrittura specchio dell’umano e specchio della vita del monaco (la ascolto fino a farne una pratica trasformativa?). Lo specchio ci riflette e così ci porta a riflettere, a pensare, e esaminarci, quindi a interpretare e a dare significati a ciò che abbiamo scoperto in noi e di noi, ma anche degli altri e fuori di noi, fino a immaginare dei possibili e introdurre delle novità in noi e fuori di noi, aprire delle possibilità e delle alternative per noi e per gli altri fino a raccontarle e testimoniarle, per trasmetterle e fare in modo che, nel contatto con gli altri e con la realtà, possano avvenire delle trasformazioni. In noi, negli altri e nella realtà.

Abbiamo qui sintetizzato le tappe del lavoro di formazione di sé a cui ognuno è chiamato: riflettere, interpretare, immaginare, narrare, testimoniare. E così si giunge alla trasformazione di sé. Nella nostra vita noi siamo soggetti a mutamento, e spesso questi mutamenti ci sorprendono e provocano anche catastrofi, soprattutto a partire dalla seconda metà della vita e normalmente inducono a intervenire sul contesto esteriore pensando che il problema sia lì mentre ovviamente è in noi e ci accompagnerà ovunque andremo. Siamo chiamati a nascere e a rinascere a noi stessi facendo tesoro delle crisi, dei fallimenti, degli errori, che per l’impatto lacerante che hanno su di noi e in noi, ci rendono più aperti e disponibili a rimetterci in cammino. Allora anche la crisi e l’errore si riveleranno dei preziosi indicatori di via.

Perciò, fratelli, sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede, umili nell’accettare l’aiuto e l’accompagnamento di altri, risoluti nel lavoro di conoscenza e trasformazione di noi stessi. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano