Progettare insieme per fare chiesa - Avvenire 4 giugno
Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori
XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE
processi partecipativi tra liturgia e architettura
BOSE, 1-3 giugno 2017
Avvenire 4 giugno 2017
di LEONARDO SERVADIO
Abbiamo imparato a fare chiesa» ha dichiarato uno dei giovani partecipanti al laboratorio attivato nella comunità monastica di Bose alla conclusione del XV Convegno liturgico Internazionle (CLI), svoltosi da giovedì a ieri e articolato secondo tre vie: “Abitare, Celebrare, Trasformare”. L’iniziativa è intesa a riprendere alla radice il concetto del luogo di culto, per comprendere come costruirne ancora oggi e di un valore paragonabile a quelle lasciateci dal passato. In questi primi mesi di lavoro, anzitutto i giovani hanno imparato a pensare e a sperimentare assieme: «È questa la prima grande lezione che abbiamo appreso» hanno spiegato i partecipanti al CLI/Lab.
La Chiesa di “pietre vive” è quella che sarà capa- ce di edificare l’altra, quella di solidi muri, destinata a durare nel tempo e a «testimoniare la nostra opera, anche al di là del tempo che ci è concesso su questa terra», come ha chiosato Carlo Ratti alla conclusione del convegno. Questo si è diffuso su tematiche apparentemente lontane tra loro, dalla teologia alla tecnologia. Ma necessariamente tutte concorrono alla definizione degli ambienti in cui viviamo, tenendo conto del fatto che la chiesa resta l’architettura principale per la vita sociale. Non solo la città europea è per tradizione incentrata proprio sulla chiesa ma, come ha ricordato Luigi Bartolomei nell’aprire la seconda giornata del convegno, l’annuncio cristiano porta a compimento, nel grembo materno di Maria, l’attesa del sacro che è presente nell’uomo da sempre, sin dalle grotte preistoriche sulle cui pareti si sono assommati graffiti per millenni, a dimostrazione di come quelli fossero luoghi sacri, primari per l’identità dei gruppi umani che vi si riconoscevano. «Più che distanza o opposizione – ha detto Bartolomei – tra quei culti lontani e il messaggio cristiano v’è compimento» portato dall’azione consolatrice, quella che toglie dalla solitudine attraverso l’accompagnamento: sicché l’azione dello stare insieme che diviene luogo (con-solo), poiché l’essenza dell’umano è di carattere relazionale. Per cui lo spazio della città, luogo primario dell’essere comunità, si ricollega immediatamente alla sacralità nel momento in cui si riallaccia alla memoria delle generazioni passate: e non a caso la città sorge prossima al cimitero. In tale nesso si trovano archetipi tuttora attivi nella psiche collettiva, che la Chiesa porta a compimento nel riassumerli attraverso le testimonianze della buona novella.
Ecco dunque che continuità e trasformazione sono intimamente riassunti nell’edificio che meglio esprime la presenza della comunità nel trascorrere della storia. Il cui aspetto dinamico è stato evidenzato anche da Louis-Marie Chauvet che ha discusso dei riti del passaggio – e i riti sono tutti collegati a un passaggio, a una pasqua. A partire dalle esequie che implicano sempre accoglienza e accompagnamento, al rito dell’accensione del cero segno di risurezione. Sono questi gesti che “fanno” chiesa e nella loro essenzialità si spiegano da soli, ha insistito Chauvet notando come invece a volte si carica il rito di eccessive spiegazioni quando, per l’architettura come per la liturgia, “less is more”, il meno è più.
«Uno dei problemi in architettura – ha osservato Andrea Longhi, docente al Politecnico di Torino e uno dei mentori del laboratorio giovani del CLI insieme con Luigi Bartolomei, Stefano Biancu, don Valerio Pennasso e i monaci di Bose Goffredo Boselli, Emanuele Borsotti e Massimo Buongiorno – sta nel pregiudizio determinato dalle immagini che ciascuno di noi ha in mente, di spazi o luoghi esistenti». Di qui la necessità di acquisire una più vasta conoscenza di luoghi e immagini così da aprire lo sguardo a panorami più vasti e, soprattutto, la necessità dell’ascolto, senza la quale i processi partecipativi necessari alla giusta architettura sarebbero impossibili.
Solo la capacità di ascolto consente di interpretare la complessità. Che diviene sempre più articolata per via delle potenzialità offerte dalla tecnologia all’arte del progettare.
Al riguardo Carlo Ratti, architetto torinese docente al MIT di Boston, ha presentato diversi esempi di come attraverso l’informatica si possano ottenere sistemi capaci di regolare il controllo climatico (che può persino essere focalizzato sulla singola persona per evitare dispersioni di energia), o si possano disegnare luoghi con elementi un tempo impensabili, quali i getti d’acqua regolati al punto da comporre pareti intere. Ma tecnologie così avanzate richiedono la massima compartecipazione. In un progetto per Medina in Arabia Saudita hanno dovuto interagire specialisti in tredici diverse discipline: la progettazione oggi è firmata da gruppi, così come lo è la ricerca scientifica, oggi non più appanaggio di singoli, ma solo di team di lavoro. L’architettura partecipata ha trovato nel sistema dei concorsi attivati dalla Conferenza Episcopale Italia- na sin dalla fine degli anni ’90, un esempio fruttuoso: l’ha notato Gabriele Cappochin, presidente del Consiglio Nazionale Architetti PPC, che in apertura del convegno notava quanto fosse auspicabile che i sistemi partecipativi studiati dalla Chiesa italiana fossero adottati anche per le opere pubbliche. Nel laboratorio giovani aperto a Bose sotto gli auspici della Cei, si trova un altro, ancor più aggiornato esempio di come procedere in ogni ambito della progettazione e conservazione degli spazi urbani, così che siano sentiti come autenticamente propri da ogni cittadino. Proprio come è ogni chiesa, per sua natura.