Lo Spirito come eredità di Gesù
15 giugno 2025
SS. Trinità
Giovanni 16,12-15 (Pr 8,22-31; Rm 5,1-5)
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù disse «12Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
In questa domenica che ha al suo centro la celebrazione del mistero della Trinità divina, la prima lettura (Pr 8,22-31) presenta quella figura della Sapienza che rappresenta Dio nel suo comunicarsi agli uomini, nel suo entrare in relazione con loro, e questa comunicazione, che il Primo Testamento dice essere avvenuta essenzialmente attraverso la parola (e dunque anche attraverso il soffio che accompagna la parola), secondo il Nuovo Testamento è avvenuta pienamente in Gesù Cristo, la Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), e nello Spirito santo, il Soffio divino. In particolare, la comunicazione di Dio agli uomini nel Figlio e nello Spirito si manifesta come comunicazione del dono dell’amore (Rm 5,1-5). Lo Spirito completa nel credente l’opera di Cristo interiorizzando in lui la presenza del Figlio e guidandolo ad assumere e a portare la Parola di Dio che fa rinascere a figli di Dio (Gv 16,12-15).
La lettera ai Romani suggerisce che la comunicazione divina che in Cristo raggiunge l’uomo per mezzo dello Spirito è comunicazione dell’agape, che è anche il vincolo della comunione: “L’amore (agápe) di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato” (Rm 5,5). Possiamo affermare che il mistero della Trinità è espresso biblicamente dalla frase giovannea “Dio è amore” (1Gv 4,8). Il dogma trinitario non è altro che “lo sforzo ostinato di andare sino in fondo a questa frase di Giovanni” (Rémi Brague). La comunicazione essenziale e vitale che da Dio viene all’uomo è dunque la comunicazione dell’agape grazie allo Spirito santo. Per far uscire la riflessione sulla Trinità da speculazioni teologiche che potrebbero apparire distanti dalla realtà, possiamo vedere come Paolo mostri che la ricezione dello Spirito segna il punto culminante del processo di crescita e di maturazione del credente. Ovvero, la Trinità divina non è affermazione che concerne una sorta di matematica teologica, ma riguarda la concreta vita spirituale del credente. In Rm 5,3-4 l’Apostolo presenta una serie progressiva di passaggi che dicono il divenire del credente a partire dall’accoglienza del dono spirituale dell’agape. Ovvero: nella fede di essere amato da Dio, il credente vive esperienze di per sé potenzialmente devastanti e distruttrici come passaggi di crescita umana e spirituale. La tribolazione conduce alla fermezza, la fermezza alla maturità, la maturità alla speranza, una speranza che non delude perché fondata sull’amore di Dio in Cristo Gesù. Paolo parla di tribolazioni, thlípseis (5,3) che sono le prove dolorose che provengono a lui dall’esterno, dall’esercizio del suo ministero, dal suo servizio al vangelo in una comunità. Sono le tribolazioni apostoliche. Paolo ne parla anche in 2Cor 11,23ss., dove enumera diverse prove pesanti che l’hanno colpito: fatiche, prigionie, percosse, pericoli di morte, travagli… E si tratta in buona parte di realtà dovute a ostilità, a inimicizie, a opposizioni, a calunnie, a eventi che fanno male anche più di gesti violenti o che hanno il peso di una pena capitale. Ma Paolo mostra che proprio le tribolazioni, per quanto destrutturanti, possono essere il luogo di una ristrutturazione del cuore secondo il nudo vangelo di Dio. “Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza” (2Cor 11,30). Infatti, queste tribolazioni, vissute nella fede, producono la trasformazione del cuore, normalmente così recalcitrante davanti al cambiamento. La tribolazione è occasione per imparare la fermezza, ovvero, il rimanere sopportando il peso della sofferenza; questo produce la maturità, cioè la qualità provata di una persona, dunque la sua affidabilità. La maturità poi apre alla speranza autentica, e autentica proprio perché si è misurata sui drammi dell’esistenza vissuti sulla propria pelle. Speranza autentica perché fondata sulla coscienza dell’amore di Dio, cioè sull’amore ricevuto, non sul proprio amore. Questa speranza conferma il credente nell’unica realtà che non delude, l’amore di Dio. Dirà Paolo: “chi mai potrà separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù?” (Rm 8,39). E ancora: “Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35.37). Insomma, è nel dono di Dio configuratosi nella vita di Gesù Cristo e comunicato attraverso lo Spirito che il credente può fondarsi, nella fede, per fare qualcosa di positivo anche di eventi negativi.
Il vangelo ci mostra Gesù che, mentre sta per lasciare i suoi, vorrebbe ancora dire loro molte cose, ma pone un limite al suo dire e rinvia i discepoli allo Spirito che riceveranno. Gesù non rende la sua presenza saturante e totalizzante ma lascia spazio allo Spirito, ovvero, dà la parola ai discepoli, consente loro di nascere, di venire alla parola. Genera a libertà e responsabilità i discepoli. Ritirarsi e inviare lo Spirito è un atto di fede nei discepoli: Gesù crede in loro. Saranno i discepoli a forgiare le parole che lui non ha pronunciato e le forgeranno mediante la loro apertura allo Spirito. Gesù fa spazio ai suoi: se lo Spirito li guiderà alla piena verità, egli apre loro la strada: li ha amati, ha vissuto con loro, li ha istruiti. Ora si tira indietro e lascia loro come eredità lo Spirito. Gesù lascia la presa. Egli tace le altre parole che potrebbe pronunciare perché, dice ai discepoli, “per ora non siete capaci di portarne il peso” (Gv 16,12). La comunicazione autentica attende i tempi dell’altro. Dare parola è anche generare a responsabilità. Non a caso, Gesù parla delle parole come di un peso, come di un peso da portare. Il verbo greco bastàzein (v. 12), è applicato nel Nuovo Testamento al portare la croce, al portare una bara durante un funerale, al portare in grembo un figlio, al portare gli altri come peso e a portare i pesi gli uni degli altri. La responsabilità si misura anzitutto sulle parole. E le parole sono azioni, agiscono su chi le ascolta, lo deprimono o lo esaltano, lo consolano o lo rendono triste. Parlare è intervenire sugli altri e sul mondo. Come potranno essere portate le parole che Gesù si astiene dal dire? Saranno i discepoli stessi che dovranno inventarle aprendosi all’azione dello Spirito.
Al cuore della comunicazione di Gesù ai discepoli vi è l’elemento della mancanza. La mancanza come spazio da abitare e nutrire perché alveo del desiderio. Noi spesso ci rapportiamo alla mancanza come a un vuoto da colmare o a una lacuna da saturare, mentre essa va accolta positivamente come spazio necessario alla vita, come apertura all’altro e proiezione al futuro. Uno dei significati basilari del termine ebraico ruach, spirito, è aria, atmosfera, spazio, spazio vitale e da questo significato di base ne derivano altri sia cosmici (vento) che antropologici (respiro) che teologici (soffio di Dio). Dare lo Spirito è creare uno spazio, comunicare vita. È atto generativo. Il nostro brano evangelico ci dice che Gesù non è solo parola, ma anche silenzio, non detto. Vi è una non esaustività che è costitutiva della fede cristiana e degli stessi vangeli. Solo lo Spirito fa unità tra Parola e silenzio ed è interprete della parola come del non detto di Gesù. I testi evangelici, stando sempre alla testimonianza del IV vangelo, sono segnati da incompiutezza. “Gesù fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro” (Gv 20,30; cf. 21,25). Il vangelo è opera aperta, che richiede il coinvolgimento e la prosecuzione da parte del lettore. Ogni credente è chiamato a scrivere la sua versione del vangelo con la testimonianza della propria vita. Il discorso evangelico non è totalitario, chiuso, ma generativo di vita e di futuro. E questo proprio grazie alla sua costitutiva mancanza. Il vangelo si apre così alla potenza del desiderio. E il desiderio non è saziabile da alcun possesso. Il vero desiderio è quello che il desiderato non sazia, ma approfondisce. La vera comunicazione, anche su un piano pedagogico e formativo, non consiste nel saturare l’altro di nozioni o regole o parole nostre, ma consiste nel suscitare il suo desiderio.
Il testo evangelico ci dice che la vera comunicazione che Dio, in Cristo, compie verso l’umanità, è comunicazione di vita e di desiderio. È atto di generazione alla vita. Affidare i discepoli allo Spirito è cedere il ruolo di guida che Gesù aveva avuto finora verso di loro. “Lo Spirito”, dice Gesù, “lui vi guiderà alla pienezza della verità” (16,13). Se Gesù è la via, la verità e la vita, egli lascia che sia lo Spirito che diventa desiderio e volontà nei discepoli, che ne anima l’intelligenza e la creatività, a guidarli lungo la via della verità e della vita. Lo Spirito, memoria della mancanza, ci installa nel divenire, ci radica nel camminare, ci situa nell’umiltà e ci ricorda che noi non bastiamo a noi stessi, che la strada è ancora lunga, e che l’opera necessaria è risvegliare il desiderio che nel passare del tempo rischia di spegnersi come fuoco sotto la cenere. Questo il nostro compito: accogliere il fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra (cf. Lc 12,49), farci investire dallo Spirito sceso come fiamme di fuoco a Pentecoste, lasciarci incendiare da quel fuoco che solo infonde passione, senso e bellezza alla vita cristiana.