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Jendi saint


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Bose, 1er avril 2010
Homélie d'ENZO BIANCHI
Le chrétien, chacun de nous, pour entrer en relation avec Jésus, devra se laisser laver les pieds; il devra accepter de voir se briser l'image religieuse, théologique qu'il a de Dieu, qu'il a de son Envoyé
Homélie
d'ENZO BIANCHI, prieur de Bos
e
en langue originale italienne
Missa in Coena Domini
Bose, 1er avril 2010 
Giovanni 13,1-15
1 Corinti 11,23-32
 
écouter l'homélie:
 

Carissimi,

iniziamo a celebrare il santo sacramento del Triduo pasquale, cominciamo a vivere il mistero pasquale di Gesù, il mistero che si è consumato in tre giorni, mistero sintetizzato nella sua passione, morte e resurrezione. Ma va subito detto con chiarezza: noi non celebriamo gli ultimi giorni di Gesù in quanto ultimi giorni della sua vita, ma perché in essi c’è stata la rivelazione, la narrazione di tutta la vita di Gesù e di tutta l’opera di Dio a favore di noi uomini.

Con questo tramonto siamo all’inizio del primo giorno, il giorno della passione e morte che si apre significativamente con la cena di Gesù, nella quale egli, con dei gesti, ha voluto raccontare in anticipo quello che sarebbe accaduto nelle ore successive dello stesso giorno, il primo dei tre giorni pasquali. Gesù, volendo dire ai suoi discepoli che dava la vita liberamente e mosso soltanto dall’amore, volendo istruire i discepoli sul significato di quegli eventi terribili ormai incombenti, secondo i vangeli sinottici compie un gesto e secondo il quarto vangelo compie un altro gesto. Ma i due gesti hanno lo stesso significato, la stessa intenzione: uno è il gesto eucaristico della frazione del pane, l’altro è il gesto della lavanda dei piedi. Le letture che abbiamo ascoltato ci danno la narrazione di questi gesti: nel brano della Prima lettera ai Corinti Paolo racconta, in fedeltà alla tradizione che troviamo nei sinottici, la frazione del pane; nel quarto vangelo Giovanni ci parla della lavanda.


Questa sera voglio sostare sulla lavanda, ma non dimentico che il gesto eucaristico, così come la lavanda, vuole manifestare l’amore di Gesù, svelare l’amore di cui Gesù è stato capace, dirci come Gesù aveva speso la vita e l’ha voluta anche dare subendo l’ingiustizia, la violenza degli uomini, subendo il tradimento di chi mangiava con lui lo stesso pane (cf. Sal 41,10; Gv 13,18) e sedeva alla stessa tavola, ma mentiva; subendo il tradimento all’alleanza comunitaria da lui vissuta interamente; subendo anche l’incomprensione e la non vicinanza di quelli che aveva scelto «perché stessero con lui» (Mc 3,14). Gesù ha vissuto questo senza contraddire l’amore, senza venir meno all’amore; e in questo Gesù non ha solo vissuto con forza ciò che gli apparteneva nella sua vita umana, ma ha anche raccontato Dio e lo ha raccontato non nella quantità delle sofferenze, non nel soffrire e nel morire, ma nel vivere sofferenze e morte ingiusta in un preciso modo, mai venendo meno all’amore. La morte di Gesù, la sua passione hanno questo di unico e sono per noi oggetto questa sera di contemplazione: non in quanto morte, non in quanto sofferenza, ma perché Gesù è riuscito a vivere morte ingiusta e sofferenza continuando ad amare e mai contraddicendo l’amore.

Durante l’ultima cena Gesù è con i discepoli e dice, secondo Paolo che si rifà alla tradizione: «Questo è il mio corpo che è per voi … Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Che cosa significano queste parole? Significano: «La mia vita è stata, è e sarà nelle prossime ore vita donata a voi, spesa per voi. E la mia morte, fino al sangue versato, è un nuovo patto, una nuova alleanza, ultima e definitiva, con voi». Pensiamo almeno un momento al contesto reale di queste parole. Con Gesù ci sono i discepoli, uomini ai quali egli si è dato e per i quali ha consumato la vita: tra di loro c’è uno che lo tradisce, che vive nella menzogna ormai da tempo ma continua a stare con Gesù; uno che lo rinnega, e solo dopo si pentirà nonostante gli avvertimenti che Gesù gli aveva dato personalmente; e gli altri, impauriti, ignavi, inerti, che lo abbandonano tutti. Gesù dice: «Io vi do il mio corpo»; gli altri – Paolo legge la comunità di Corinto, ma era la comunità del Signore quella sera, è la nostra comunità questa sera, è la comunità della chiesa –, gli altri tengono il «proprio» (ciò di cui pensano di avere proprietà); addirittura, pur partecipando alla cena in cui il Signore dà tutto, anche il suo corpo – «il mio corpo che è per voi» –, gli altri tengono il «proprio» per sé fino a mangiare – dice Paolo – il «proprio» cibo e dunque in realtà non sono partecipi della cena del Signore (cf. 1Cor 11,17-22).


Ma leggiamo anche come la lavanda dei piedi da parte di Gesù dica la stessa cosa, e come Gesù per entrambi i gesti comandi: «Fate questo in memoria di me», oppure: «Fate questo come io ho fatto a voi». Due gesti, due memorie comandate per una sola realtà: Gesù che dà la vita per noi. Conosciamo bene questa narrazione della lavanda, descritta con precisione e con una lentezza che ci invita a sostare anche sui particolari dell’agire di Gesù. È impressionante, ma è una scena in cui le parole sono semplicemente di troppo. È un fare di Gesù; di più, direi che per Giovanni è veramente l’opera, quell’opera di cui più volte ha parlato nel quarto vangelo, l’opera di Gesù, l’opera del Figlio, ma che adesso diventa un’azione, un fare.

Avete sentito: Gesù si alza da tavola, depone le vesti, prende l’asciugamano, se lo cinge ai fianchi, versa l’acqua nel catino, lava i piedi ai discepoli. È Gesù che opera, che fa, totalmente protagonista, non ha né inservienti né assistenti. Perché quel gesto che riassumeva tutta la sua vita e che prefigurava la sua morte, in sintonia a come aveva vissuto al servizio degli altri, lui solo e solo così poteva farlo. È il fare dello schiavo – lo sappiamo bene – verso il suo Signore; ma è anche il gesto che può essere fatto per amore da parte del discepolo verso il suo rabbi; ed è anche il gesto che poteva essere fatto per amore da parte del figlio verso il padre vecchio e anziano. Solo in quei casi era possibile quel gesto: o per amore del figlio e del discepolo, o per obbedienza dello schiavo. Un gesto, dunque, che è di umiliazione ma che può anche essere di relazione, di affetto. E non possiamo dimenticare che, se questo è il gesto compiuto quella sera da Gesù verso i suoi discepoli, l’unica che aveva fatto a lui quel gesto, l’unica – non glielo hanno mai fatto i discepoli –, l’unica era quella prostituta che gli lavò i piedi e per la quale Gesù ha dovuto dire che quel gesto era una narrazione di amore (cf. Lc 7,36-47; Mc 14,3-9).


 

In ogni caso, Gesù opera un’inversione dei ruoli: si fa schiavo, si fa discepolo, si fa figlio. Ecco lo scandalo di Pietro: il gesto compiuto da Gesù dice la sua identità, e Pietro, da buon ebreo, non può accettare una tale identità per il suo rabbi, per il suo profeta e Messia. Così egli protesta, e non accettando l’opera di Gesù non accetta neppure l’opera di Dio. Gesù deve dunque dirgli: «Se tu non accetti che io ti lavi i piedi non avrai parte con me». Cioè: «Tu non puoi avere nessuna comunione con me, né qui e ora, ma neanche nel Regno, neanche nella vita eterna». Gesù con quel gesto fonda la relazione essenziale tra lui e il discepolo, tra lui e il credente futuro, tra lui e il cristiano.

Il cristiano, ciascuno di noi, per entrare in relazione con Gesù dovrà lasciarsi lavare i piedi; dovrà accettare di vedere andare in frantumi l’immagine religiosa, teologica che ha di Dio, che ha del suo Inviato; dovrà accettare un amore che non si può misurare umanamente, ma che è un amore sempre preveniente, un amore, soprattutto, che non si deve meritare. Sì, perché ciascuno di noi, e questo è il grande ostacolo alla fede in Gesù Cristo, pensa di dover meritare l’amore. Qui davvero sta la differenza tra gli uomini che sono pronti a credere in Dio ma che sono lenti a credere in Gesù Cristo. Questa è la verità: Gesù ci dice che l’amore di Dio non va meritato. Gesù conosce questa difficoltà umana, per la quale l’uomo non arriva a credere, non arriva a credere in Cristo e non arriva a «credere all’amore», come dice con molta intelligenza spirituale Giovanni nella sua Prima lettera (cf. 1Gv 4,16).


 

Per questo Gesù chiede solo che ci lasciamo lavare i piedi da lui e ci promette che capiremo più tardi il perché. Ecco allora l’exeghésato (Gv 1,18) attuato nella lavanda: Gesù che ci narra Dio, che ci narra l’amore di Dio, un amore che non dobbiamo meritare, un amore per il quale i piedi ci sono lavati anche quando noi non comprendiamo. Pietro capirà più tardi, dopo essere passato anche attraverso l’infedeltà. Anche Giuda si lascia lavare i piedi quella sera, ma non capirà; anzi, proprio perché Gesù gli ha lavato i piedi, proprio perché gli ha dato il boccone eucaristico, accresce la sua capacità di inimicizia fino a permettere che Satana si impadronisca completamente di lui (cf. Lc 22,3). Ecco allora il messaggio: lasciarsi lavare i piedi da Gesù Cristo. Qui noi decidiamo se la nostra fede è autenticamente cristiana, o se resta ancora nell’economia veterotestamentaria, o se è semplicemente una fede monoteista. Perché solo da una tale comprensione di Gesù, da una tale inversione dei ruoli noi decidiamo la comunione con Dio o il suo rifiuto.

Ma dopo il gesto e dopo il dialogo con Pietro, Giovanni ci parla di un dialogo avvenuto anche con i discepoli: «Avete capito quello che vi ho fatto?». Qui però ciò che è richiesto nella comprensione non riguarda l’identità di Gesù, ma riguarda il comportamento dei discepoli. Gesù instaura un’altra logica nelle sue parole: si passa così dal piano cristologico circa l’identità di Gesù, al piano etico, o – se si vuole – al piano ecclesiologico, al piano delle relazioni tra i discepoli, che è poi il piano della relazione tra i cristiani e tutti gli uomini che il cristiano decide semplicemente di incontrare, credenti o non credenti, cristiani o non cristiani. La lavanda dei piedi operata da Gesù è stata sì una rivelazione di chi Gesù è, ma qui diventa un esempio, un paradigma – potremmo dire nel nostro linguaggio – che viene proposto ai discepoli. Ecco come dalla fede scaturisce il fare, l’etica: «Dimmi che immagine tu hai di Dio e ti dirò come tu vivi da uomo. Se dunque tu credi che Dio, il Signore, può lavare i piedi a te, allora tu sarai capace, anzi sentirai la responsabilità e il dovere di lavare i piedi agli altri».


 

E non dimentico neppure qui, in questo passaggio dalla rivelazione all’etica, il racconto di Paolo, perché anche l’Apostolo ci fa passare dalla liturgia all’etica, da una celebrazione rituale a un entrare in quella logica del «per voi», smettendo di avere per sé il proprio. In ogni caso, dai gesti fatti da Gesù, lavanda o istituzione, scaturisce l’etica ecclesiale, il fare dei cristiani. L’interpretazione liturgica della chiesa romana ha privilegiato questo paradigma della lavanda; ha privilegiato, per così dire, il versante etico del gesto di Gesù e ha considerato la lavanda dei piedi come ministerium, come un compito necessario nella vita fraterna, a imitazione di Gesù che presiedendo la comunità ha lavato i piedi ai suoi. Ed è per questo che nella chiesa latina chi presiede la chiesa, chi presiede una comunità monastica lava i piedi agli altri. Ma va ricordato che l’interpretazione ambrosiana privilegia il significato cristologico e fa addirittura della lavanda un gesto battesimale; certo, con un significato penitenziale, che noi facciamo fatica a comprendere.
Ma è significativo che nella tradizione monastica, dove si è iniziata a vivere la lavanda, prima ancora che all’interno delle chiese, questo gesto sia un gesto che dice, rivela, racconta come i cristiani vivono l’amore. Mi ha sempre impressionato che nella Regola di Benedetto si ordina che l’abate versi l’acqua sulle mani degli ospiti che arrivano e, aiutato dalla comunità, lavi i piedi a tutti gli ospiti che giungono in monastero: «Pedes hospitibus omnibus tam abbas quam cuncta congregatio lavet» (RB 53,12-13). Pensate, se io dovessi lavare i piedi a tutti gli ospiti che arrivano qui… Però questo è significativo, perché non è solo un gesto di umiltà, di servizio verso l’ospite che nella tradizione monastica è comunque sacramento di Cristo (cf. RB 53,1), ma io credo voglia essere soprattutto una dimostrazione di umanità. Non a caso san Benedetto ha appena affermato: «Omnis ei exhibeatur humanitas», «si mostri all’ospite tutta l’umanità» (RB 53,9). Quasi a dire che la lavanda dei piedi è un cammino di umanizzazione per l’ospitante, abate e comunità monastica, ma anche per l’ospite che giunge, sconosciuto o conosciuto.


 

Questo gesto della lavanda dei piedi, segno di un servizio all’altro, segno di umiliazione personale riguarda tutti: riguarda noi monaci e riguarda anche voi, amici e ospiti. È vero che nella liturgia lo compie solo chi presiede la chiesa o la comunità monastica, e certamente lo fa, se pur indegnamente, a nome di Cristo, per ricordare l’abbassamento del Kýrios, l’atteggiamento di Dio verso ciascuno; ma poi, secondo la volontà di Gesù, questo gesto dovrebbe essere compiuto dalla comunità tutta, dai cristiani tra di loro, dovrebbe essere un gesto reciproco.

Ora chi presiede lo compie, a nome del Signore, per raccontare chi era Gesù, come inveramento del suo esempio; ma lo compie anche per dire che il rapporto fraterno nella comunità cristiana è dato dal servizio dello schiavo o dall’affetto del discepolo verso il maestro, del figlio verso il padre. È un gesto dunque che noi reiteriamo perché Gesù ce lo ha chiesto, per il suo comando, alla stessa maniera con cui rifacciamo il gesto sul pane e sul vino. Che il Signore ci conceda di accettare questo suo gesto. E soprattutto ci conceda, attraverso questo gesto, di modificare la nostra immagine di Dio e di accogliere il suo amore: un amore che non dobbiamo meritare perché ci previene, un amore che non chiede neppure reciprocità, ma chiede solo di essere accolto e creduto. Perché noi cristiani dobbiamo essere, secondo la volontà di Gesù, nient’altro che quelli che credono all’amore (cf. 1Gv 4,16).

Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose

 

Transfiguration du Seigneur


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6 août 2009
Homélie de ENZO BIANCHI
Quand on parle de vie monastique, un mot vient immédiatement à l'esprit, stabilitas, auquel la Règle de saint Benoît consacre une grande attention et beaucoup de place

Bose, 6 août 2009

(Mc 9,1-10)

Profession monastique définitive
d'Emiliano, Luigi, Gianmatteo, Elisabetta

 

Texte original italien
de l'homélie du prieur de Bose

 

Écouter l'homélie:



ENZO BIANCHI, prieur de Bose

Cari fratelli, sorelle, sorelle di Cumiana, fratelli monaci, amici e ospiti,

in una estesa comunione che va dall’oriente all’occidente noi vegliamo davanti al Signore e predisponiamo tutto il nostro essere perché diventi partecipe del mistero di Gesù Cristo trasfigurato. Su tutta la terra la chiesa, e in particolare i monaci, sono in veglia e cantano la gloria del Signore; su tutta la terra i monaci stanno davanti a Dio, coram Deo, realizzando così la loro vocazione. In questa notte noi più che mai viviamo la nostra vocazione e ne diventiamo consapevoli. Noi monaci non abbiamo una particolare missione o funzione nella chiesa: siamo semplicemente uomini e donne insieme, da un punto di vista umano, quasi per caso. Siamo qui, siamo là, nei deserti o nelle selve, sui monti o nelle valli, per che cosa? Per stare davanti a Dio insieme, in una vita comune, niente di più. Non facciamo nulla di particolare se non rimanere davanti a Dio e con Dio, in ascolto di Dio, in ricerca di Dio e per lasciarci trovare da Dio, in attesa della venuta di Gesù Cristo, con il quale vogliamo essere per sempre (cf. 1Ts 4,17). E tutto questo pregando e lavorando, pregando come cristiani e lavorando come tutti gli uomini: Ora et labora, due dimensioni assolute, due dimensioni strettamente connesse che compongono la vita del monaco.

Quando si parla di vita monastica viene subito in mente una parola, stabilitas, alla quale la Regola di Benedetto dedica molta attenzione e molto spazio (cf. RB 4,78; 58,9.17; 60,8; 61,5). Ed è vero, i monaci vivono la stabilitas, e per questa saldezza, per questo «stare» sono, come dice Benedetto, il genus fortissimum coenobitarum (RB 1,13). Ma la loro è una stabilitas in movimento: nella chiesa pellegrina sulla terra, chiesa fatta di carovane che attraversano città e deserti con una meta, con un oriente preciso, l’incontro con il Signore veniente nella gloria, ci sono anche i monaci. Camminano in gruppo, sono una carovana: il loro nome è koinonía, comunità comunione. Non so se stanno davanti, o al cuore, oppure seguono, ma certo i monaci dovrebbero, ovunque siano nella chiesa, saper tenere il volto rivolto verso la meta che è il Signore, dovrebbero essere come segni leggibili della direzione di tutta la carovana. Lo ripeto, i monaci non hanno compiti, non hanno missioni particolari: se sono fedeli alla vocazione ricevuta «fanno segno», sono come dei segnali sul cammino, niente di più…

Alla loro carovana si uniscono altri col passare degli anni, ma il cammino è lungo: anche quelli che a un certo punto si sono impegnati in questo cammino sono tentati di prendere altre vie. È la smentita della vocazione, è il tradimento dell’alleanza, è l’aver messo mano all’aratro e poi volgersi indietro (cf. Lc 9,62). E chi può negare che i nostri giorni sembrano proprio segnati dalla facile rottura degli impegni presi, nel matrimonio come nelle altre vocazioni cristiane? Anche la nostra comunità ha conosciuto recentemente questi strappi, questo rinnegamento di un cammino percorso, di un cammino abbracciato per amore e nella libertà. Ma il Signore davanti al quale siamo, sa, vede e comunque raccoglie le lacrime nella sua mano (cf. Sal 56,9) e non le dimentica. La vita monastica, che attualmente attraversa una situazione difficile in tutte le chiese di occidente, è soltanto questo: una carovana in mezzo alle altre che compongono la chiesa pellegrina, ma una carovana che punta con decisione e saldezza verso il Regno veniente, che tende all’incontro con Gesù Cristo, colui che noi monaci vogliamo amare al di sopra di tutti, di tutti e di tutto, colui al cui amore nulla è anteposto. Nihil amori Christi praponere, come ci ricorda ancora Benedetto (RB 4,20)!


E noi in questa notte siamo qui perché nihil operi Dei praeponimus (cf. RB 43,3), non preponiamo nulla all’opus Dei, allo stare davanti a Dio, che è credere, adorare, confessare suo Figlio. Opus Dei è l’opera per eccellenza che ci è stata richiesta da Gesù, quando ha avvertito chi voleva seguirlo: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). Noi in questa notte contempliamo Gesù trasfigurato, attraverso la parola del vangelo che lo narra e lo testimonia. Abbiamo ascoltato il racconto secondo Marco che inizia solennemente: «Amen, in verità vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio venuto con potenza» (Mc 9,1). Gesù parla alle folle e ai discepoli, ma fa un annuncio che opera una distinzione: tra i suoi ascoltatori alcuni saranno beneficiari di un’esperienza misteriosa, diventeranno nella fede partecipi di un mistero prima di morire. Nei versetti precedenti Gesù ha parlato della sequela esigente dietro a lui, dicendo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, smetta di conoscere soltanto se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34), ma ora promette che qualcuno di quelli che lo seguono vedrà il regno di Dio non solo alla fine dei tempi, ma già venuto nella sua forza; Gesù promette che alcuni parteciperanno al suo mistero, alla sua identità, alla sua vita. Non tutti, ma solo alcuni…

Ed ecco l’adempimento di questa promessa: «sei giorni dopo» (Mc 9,2) – dunque nel settimo giorno, annotazione preziosa che fa di quel giorno anonimo un giorno sabbatico, il giorno di Gesù, il giorno del Signore – Gesù sceglie e prende con sé tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, i primi tre discepoli, i discepoli più intimi di Gesù, quelli che egli aveva scelto perché stessero con lui in momenti decisivi della sua vita. Sono tre, scelti dalla comunità dei Dodici, sono persone identificate nei vangeli per professione, temperamento: sono reali membri della comunità. Gesù «li porta in disparte, su un alta montagna», il luogo della rivelazione di Dio; e il vangelo sottolinea che li porta «essi soli» (Mc 9,2).

Ed ecco un’esperienza di fede, un’immersione nel mistero di Gesù. Chi è veramente Gesù? Chi è colui che essi finora hanno seguito come rabbi e profeta? Chi è costui e dove va? Certo, i tre non vedono nulla se non con «gli occhi del cuore» (Ef 1,18), con gli occhi della fede. Sono portati sul monte da Gesù e da lui sono sprofondati, immersi nel suo mistero; alla luce della fede sono introdotti nella conoscenza di Gesù. Vedono Gesù altrimenti, in altro modo: Gesù «fu trasfigurato, cambiò forma davanti a loro» (Mc 9,2). E così è percepito altrimenti dai tre discepoli, è percepito nella luce, nella luminosità delle sue vesti (cf. Mc 9,3). Tutto è descritto con un linguaggio al limite dell’impossibile, tutto si cerca di narrare, eppure l’evento resta inenarrabile… Pietro, Giacomo e Giovanni avevano sempre visto, ascoltato, toccato un uomo nella sua carne umana, ma ora percepiscono in quella luminosità che Gesù è anche altro. Mosè parlando con Dio aveva ricevuto un volto luminoso (cf. Es 34,29), ma qui chi risplende nella sua stessa carne è Gesù stesso.

E la percezione di Gesù raccontata visivamente si approfondisce: i tre vedono accanto a Gesù «Elia e Mosè che parlano con lui» (Mc 9,4). Gesù sta nella comunione dei santi dell’antica alleanza, dialoga con i santi profeti, è vivente nel mondo di Dio; ed Elia e Mosè pure viventi, gloriosi accanto a Gesù dicono la concordanza, la continuità tra la Legge, i Profeti e il Vangelo. Sì, nella trasfigurazione una è la fede, uno è il piano di salvezza, una è la Parola di Dio: uno dunque dev’essere il popolo di Dio, e Gesù è colui che realizza, porta a compimento la Legge e i Profeti che parlavano di lui, che videro il suo giorno (cf Gv 8,56) e che ora testimoniano la sua missione di inviato da Dio.

Pietro reagisce a tale percezione, ma di fatto non sa quel che dice (cf. Mc 9,6). Dice: «Rabbi, è bello stare qui» (Mc 9,5), reazione troppo immediata. Pietro, l’impulsivo che non sa aspettare, chiama Gesù rabbi, maestro, e gli chiede di prolungare quell’esperienza luminosa, dicendosi disposto a mettere in piedi tre tende per Gesù stesso, Mosè ed Elia. Ma questa reazione di Pietro è interrotta dalla rivelazione di Dio. Quello che finora i tre hanno percepito è solo un preambolo. Ecco dunque l’azione e la voce di Dio. Una nube, la nube della Shekinah, della Presenza di Dio, la nube che è lo Spirito santo, quella nube che stava sul Sinai e che ha incontrato Israele (cf. Es 24,16-17), che copriva la dimora (cf. Es 40,33-34), che prese possesso del tempio (cf. 1Re 8,10-12)… ora viene su Gesù. Ecco dov’è Dio, ecco la Presenza di Dio nel mondo: è Gesù! Questa nube copre anche i discepoli e da essa viene la voce del Padre che presenta Gesù: «Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Gesù è chiamato dal Padre «Figlio amato», ed è a lui che da quel momento va rivolto l’ascolto; lo Shema’ (cf. Dt 6,4-5) diventa ormai: «Ascoltate lui, il Figlio». Nella nube ci sono Gesù, Mosè, Elia e i tre discepoli: l’Antico Testamento (Israele), Gesù e il Nuovo Testamento (la chiesa). Questa è la partecipazione al mistero: nella nube, nella Presenza di Dio, partecipi insieme della vita di Dio attraverso Gesù, il Figlio. La nostra vita cristiana e monastica è chiamata a questa partecipazione, come ci ricorda Pietro: noi siamo chiamati a «partecipare alla vita divina» (cf. 1Pt 2,4): e questo stare in disparte con Gesù il Signore, per conoscere la sua identità, ascoltarla e amarla è il cammino per partecipare alla vita di Dio in Cristo. Ecco perché sono stati i monaci in oriente e poi, alla fine del primo millennio, anche in occidente, a volere la festa della Trasfigurazione del Signore e a cercare in essa la fonte della loro vita spirituale.


Proprio in questa festa noi celebriamo anche la professione monastica solenne e definitiva di alcuni nostri fratelli e di una nostra sorella. È la celebrazione della nostra alleanza tra di noi e con il Signore, è il nostro «Amen» alla chiamata di Dio e alla comunione di fratelli e sorelle che ci impegna a vivere insieme fino alla morte. Quello che molti di voi hanno celebrato nel matrimonio cristiano, stringendo un’alleanza tra sposi e con Dio che ne è il garante, ebbene questo gesto di alleanza noi monaci lo viviamo nel celibato e nella comunità. Ci vogliono molta audacia, molta fede e molta speranza per fare ciò che questa sera celebriamo, soprattutto oggi che la parola data è facilmente smentita, oggi che il primato va alla realizzazione di sé senza gli altri e sovente contro gli altri, oggi che gli esempi che ci stanno alle spalle, nella nostra storia, sembrano farci diffidare della possibilità di una vita per sempre offerta al Signore insieme. E tuttavia, cercando di vedere le realtà invisibili (cf. Eb 11,27), noi non temiamo e crediamo che Dio è fedele anche quando i chiamati da lui diventano infedeli. Cristo è la roccia che ci accompagna (cf. 1Cor 10,4), roccia di saldezza, e perciò noi non veniamo meno ma andiamo avanti fidandoci di lui; canta l’Apostolo Paolo: «Se noi diventiamo infedeli, Cristo resta fedele, perché non può smentire se stesso» (2Tm 2,13)! D’altronde, la nostra vicenda è stata anche quella vissuta da Gesù, in una vita comune con una ventina tra fratelli e sorelle, per tre o quattro anni: uno lo ha tradito, uno lo ha rinnegato e si è pentito, quasi tutti gli altri sono fuggiti alla sua morte e lo hanno lasciato solo… E dovrebbe andare meglio a noi? A noi che non abbiamo né la grazia né le forze di Gesù? A noi che non abbiamo neanche la fortuna – permettetemi di dire – di una vicenda comunitaria di soli tre o quattro anni?
Ecco allora la libertà con cui viviamo questa liturgia della professione: non siamo noi a fare qualcosa, ma è lo Spirito santo che agisce in noi e porta a temine ciò che noi sappiamo solo incominciare (cf. Fil 1,6), o meglio predisporre. Permettetemi ora una parola a ciascuno dei nostri fratelli che questa sera emettono la professione definitiva:

  1. a Emiliano, che è approdato qui nella sua ricerca intensa di Dio, come ieri sera per telefono mi diceva il suo precedente vescovo Diego Bona che lo conosce bene; questa sera c’è qui il vescovo attuale della sua chiesa locale di Saluzzo, Giuseppe Guerrini, che ci dice la presenza della chiesa di fronte alla quale emettiamo la nostra professione monastica;
  2. a Luigi, anche lui venuto qui dopo aver cercato una via di offerta della sua vita, del suo corpo e della sua intelligenza al Signore; sappiamo che questa sera pregano in modo particolare per lui i monaci della comunità di Simonos Petras sul monte Athos, con i quali ha avuto la grazia di trascorrere un lungo tempo;
  3. a Gianmatteo che, non posso dimenticarlo, è venuto qui a sette anni per seguire i corsi biblici fatti ai bambini, e io sono stato il suo maestro; poi è cresciuto ed è tornato qui quale presbitero della chiesa;
  4. a Elisabetta che, cercando una vita comunitaria, una vita di amore fraterno, ci ha trovati: tra noi è sbocciato l’amore fraterno, è sbocciata la volontà di comunione, e adesso lei compie pienamente il suo desiderio di comunità come monaca in mezzo a noi.


Io e la comunità ringraziamo il Signore per voi con gioia grande e convinta e vi accogliamo nella nostra comunione per sempre. E certo ringraziamo i vostri genitori che vi hanno trasmesso la fede cristiana; ringraziamo quelli che vi hanno aiutato a crescere nella vocazione; ringraziamo anche quelli che qui in comunità vi hanno fatto crescere e vi hanno accompagnato sulle tracce di Gesù, come maestri dei novizi, delle novizie, dei probandi. Cosa dirvi questa sera? Una sola cosa: la comunità non vi può promettere nulla, se non che qui potrete vivere il Vangelo e che qui potrete contare sull’amore reciproco, libero, gratuito, amore sempre bisognoso del perdono. Non dimenticate ciò che dice la nostra Regola: per vivere la fraternità, per vivere la comunione cristiana

  1. occorre innanzitutto credere all’amore, secondo le parole del discepolo amato: «Noi abbiamo creduto all’amore»(1Gv 4,16). È la cosa più importante, perché chi non crede all’amore non fa vita cristiana ed è fortemente minacciato nel suo cammino di umanizzazione;
  2. occorre, nello spazio comunitario, decentrarsi, cioè trovare il centro non in se stessi ma nel Signore, e comunque non voler essere al centro della comunità, lasciando sempre Cristo al centro del nostro vivere. Ricordate la lezione che Gesù ha dato alla sua comunità: quando si domandavano chi dovesse stare al centro, Gesù ha messo al centro, in mezzo un piccolo (cf. Mc 9,36);
  3. occorre dare accoglienza all’altro, decidendo di amarlo prima di conoscerlo. In una comunità monastica il grande allenamento è decidere di amare l’altro prima di conoscerlo. E non valgono né simpatie, né antipatie, né affinità elettive, perché nulla può essere preposto all’amore di Cristo. Il fratello, la sorella, è un dono di Dio, non lo scegliamo ma dobbiamo accettarlo come dono, con il suo modo di stare, di vivere i rapporti, di essere altro: gli possiamo solo chiedere di vivere il Vangelo, come lui può chiederlo a noi;
  4. infine, occorre curvarsi sull’altro, per servirlo, per perdonarlo, perché prima o poi sarà malato, prima o poi sarà vecchio, prima o poi lo scopriremo peccatore, prima o poi verrà a trovarsi in una situazione di bisogno e ci chiederà di piegarci, di curvarci davanti a lui.

Sì, questi sono quattro verbi, quattro azioni senza le quali non c’è costruzione della comunità, ma in tutte occorre il soffio dello Spirito santo che le accompagni, le sostenga, le purifichi: credere all’amore della vita comune, decentrarsi nella vita comune, fare spazio all’altro nella vita comune, curvarsi sull’altro.
Che lo Spirito vi aiuti a discernere queste esigenze, accompagni con le sue energie il vostro faticoso lavoro, vi sia sempre accanto come Consolatore. Allora potrete sperimentare «com’è bello, com’è buono che fratelli e sorelle siano insieme» (cf. Sal 133): è dono di Dio che scende dall’alto
è olio di santificazione che crea la comunità sacerdotale, perché è l’olio
di Aronne che rende la comunità sacerdotale
è rugiada che scende dall’alto, ristora e dà fragranza alla vita.

Che il Signore realizzi ciò che noi gli chiediamo con umiltà ma anche con audacia.

ENZO BIANCHI, prieur de Bose