inSiEME 2025 - convivenza islamo-cristiana

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23-27 luglio 2025

Si è da poco conclusa la terza edizione dell’esperienza di fraternità islamo-cristiana per giovani “inSiEME”, promossa dalla nostra comunità in collaborazione con il cammino giovani interreligioso “Astri nella notte” di Milano, e sostenuta dalla Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso di Piemonte e Valle d’Aosta. L’iniziativa ha visto radunarsi a Bose trentasei giovani cristiani e musulmani, di età compresa tra i 18 e i 35 anni, per alcuni giorni di convivenza volta alla conoscenza reciproca, al dialogo di vita e di fede, e alla tessitura di relazione fraterne.

Provenienti da Piemonte, Lombardia, Liguria, Triveneto, Emilia Romagna e Toscana, i ragazzi e le ragazze hanno in questi giorni potuto vivere momenti di preghiera, hanno potuto mangiare e lavorare insieme con i nostri fratelli e sorelle nei diversi settori (dall’orto al frutteto e al giardino, dal laboratorio di marmellate alla panetteria), hanno svolto attività di formazione, riflessione e scambio a partire dall’identità religiosa specifica di ciascuno. Con alcuni dei nostri monaci e monache, i giovani hanno visitano la moschea Mohammed VI di Torino, in occasione della preghiera del venerdì, dove hanno avuto un’intensa conversazione con l’imam Ibrahim Gabriele Iungo, la cui amicizia e collaborazione sostiene il nostro cammino fin dai suoi inizi.

Quest’anno abbiamo scelto un particolare orizzonte da scrutare insieme, quello della speranza. In un momento buio della nostra umanità, come credenti nel Dio della vita e non della morte, in questi giorni abbiamo voluto sostare con urgenza su questo tema, “eroico e inattuale”, come l’ha definito l’imam Iungo in uno scritto dedicato alla nostra iniziativa. Lo abbiamo fatto tornando innanzitutto a scrutare le nostre rispettive Scritture per riattingere parole di pace comuni, e poi ascoltando due testimoni della speranza per essere incoraggiati a promuovere azioni di pace: Hamdan al-Zeqri, delegato UCOII (Unione delle comunità islamiche d’Italia) per il dialogo interreligioso e l’assistenza ai detenuti e ministro di culto islamico nel carcere di Sollicciano (FI), e don Claudio Burgio, presbitero della diocesi di Milano, fondatore della comunità di accoglienza per minori Kayros e cappellano dell’Istituto minorile “Cesare Beccaria” di Milano.

Abbiamo dunque ricevuto in dono un’altra tappa di quel cammino – “gentile e responsabile”, come l’ha definito l’amico Hamdan in un messaggio a noi rivolto – che Dio sta sostenendo con la sua grazia e la sua misericordia, e che già guarda, nell’attesa, al prossimo passo da percorrere insieme, inshallah. Questa attesa comune è ormai ben radicata nei nostri cuori ed è stata ben espressa dalle parole di uno dei partecipanti, che salutandoci, ci ha chiesto: “Avete già fissato le date per il prossimo anno?”.

Con questo sguardo di desiderio e di speranza vogliamo ringraziare Dio e ciascuno dei partecipanti, che in questi giorni hanno non solo parlato di speranza, ma hanno contribuito a gettare semi di speranza e a curarne i virgulti. Speranza di pace e fraternità in un tempo di conflitti e violenze diffuse e atroci. Giacché “ogni dialogo è un disarmo, ogni mano tesa è un argine contro la prossima guerra”: parole che Djenebou Sony, una ragazza del Mali che ora vive presso Rondine Cittadella della pace (Arezzo), ha voluto consegnare ai presenti attraverso un “poesia di pace”, una preghiera che invita tutti noi a essere “uniti e determinati a costruire un mondo di pace”.


Poesia di pace

Le nostre voci, le nostre lotte — la dolce tristezza della pace da costruire.
Non siamo nati per raccontare
né i nostri dolori, né le nostre pene, né queste lacrime ardenti.
Perché offrire al mondo le cicatrici dei nostri cuori,§
quando la guerra già intreccia così tanti racconti spezzati?

Eppure...
Sotto la cenere dei nostri silenzi, un soffio fragile resisteva.
Prima di Rondine in Italia, prima del dialogo, prima del coraggio di capire,
pensavamo che le nostre storie non avessero peso.

Ma oggi sappiamo:
anche la voce più tremante può diventare luce.
Anche un sussurro può spezzare le catene dell’odio.

Siamo figli del Libano, della Palestina, dell’Armenia e dell’Azerbaigian,
del Congo, e dell’Ucraina, del Mali e di tanti altri luoghi di guera.
Neri o bianchi, donne e uomini, uniti dal dolore e dalla speranza.
Nati sotto cieli trafitti dai proiettili,
dove le ninne nanne si spengono sotto il rombo dei fucili.
Dove le aule diventano rifugi precari,
e ogni lezione è un atto di resistenza contro l’oblio.
Perché là dove l’arma distrugge, l’istruzione ricostruisce.
La conoscenza è stata la nostra lanterna nella notte dei conflitti,
il nostro scudo contro l’ignoranza e il terrore.
Le nostre madri, spesso senza lettere, furono le nostre prime scuole,
i loro occhi leggevano i sogni che non potevano scrivere.

Ci hanno insegnato che “l’albero che si piega nella tempesta non si spezza”.
Abbiamo visto città sventrate, famiglie disperse,
ragazze violentate, vendute, mutilate sotto il silenzio delle bombe,
bambini strappati all’infanzia, soldati loro malgrado.
Abbiamo visto donne portare lutti infiniti,
vittime di un sistema patriarcale che le usa come armi di guerra,
ma che non riesce mai a spegnere la loro luce.
“Quando la donna resta in piedi, il popolo resta in piedi”.
E anche gli uomini, intrappolati nei loro ruoli di protettori,
schiacciati dal peso del dovere, della paura, delle ferite taciute.
Molti sono caduti. Molti hanno pianto in silenzio.
Perché la guerra non risparmia né i sessi, né i colori, né le età.

Abbiamo attraversato lutti, epidemie, attentati,
abbiamo seppellito amici, visto i nostri padri crollare,
visto orfani portare pesi troppo grandi per le loro spalle.
“Quando il pilastro crolla, tutto il tetto vacilla”.

L’odio avrebbe potuto consumarci.

Fratelli e sorelle nella fede, che le vostre preghiere diventino ponti viventi tra moschee, chiese, sinagoghe e templi dimenticati.
Che l’amore per il prossimo, inciso in ogni versetto, ogni vangelo, ogni salmo, diventi un balsamo per le terre sanguinanti.

Musulmani, cristiani, ebrei, buddhisti, credenti di ogni cammino, uniamo le nostre ginocchia sulla terra ferita, per rialzare le anime spezzate dalla guerra.

Là dove i proiettili attraversano muri e silenzi, che le nostre voci di pace gridino più forte dei fucili, fino a trafiggere i cuori addormentati.

Perché Dio, sotto tutti i suoi nomi, piange ogni culla vuota, ogni sguardo orfano — e benedice, con un soffio d’eternità, ogni mano che si tende per guarire.

Oggi siamo giovani giuristi, insegnanti religiosi, operatori umanitari, volontari,
ma soprattutto siamo portatori di voci, voci per chi viene costantemente messo a tacere.
Voci che raccolgono le lacrime delle vedove, degli esiliati, dei sopravvissuti, portando il loro peso con dignità, senza giudizio.
“Chi porta il dolore dell’altro, alleggerisce anche il proprio”. E voi, anche se la guerra sembra non riguardarvi, avete un ruolo.
Perché nessuno è immune alle ceneri del conflitto. Il silenzio è complice. L’indifferenza è un’arma.
Ogni dialogo è un disarmo. Ogni mano tesa è un argine contro la prossima guerra.

Sì, il conflitto devasta le case, strappa i padri, spezza le madri, ruba i sogni ai bambini.
Ma l’istruzione resta l’arma più potente, diceva Nelson Mandela.

Signore e signori, io sono Djenebou Sony, vengo dal Mali. Oggi, qui, davanti a voi, lanciamo questo appello: ascoltate le voci soffocate.

Sostenete l’istruzione, soprattutto quella delle ragazze, nelle zone ferite.
Perché nessuna bambina venga più strappata ai suoi quaderni,
perché nessuna donna sia più ridotta al silenzio dalla paura,
perché nessun uomo resti spettatore impotente del dramma della sua società.
Abbattete i muri del silenzio, svelate le violenze invisibili.

Investite nella pace, non nelle armi. Scegliete la compassione al posto della vendetta.

Date una possibilità ai sogni che qualcuno voleva seppellire. Perché scegliere la vita significa scegliere l’amore invece dell’odio, il perdono invece della vendetta,
ricostruire invece di distruggere. “Là dove l’odio semina morte, il nostro amore faccia rifiorire la vita”. Oltre le ferite, noi siamo ancora qui. In piedi.

Uniti. Vivi. E determinati a costruire un mondo di pace.