Come sta Gesù nella violenza di un conflitto? Come lo impara? C’è un brano del vangelo di Giovanni (Gv 8,2-11) molto interessante. Gesù insegna nel tempio di Gerusalemme. Irrompe un’orda di soli maschi e gli getta ai piedi come un cencio usato una donna. È stata sorpresa con l’amante tradendo così il marito. Gli chiedono che cosa fare di lei ricordandogli la Legge di Mosè: è prevista la lapidazione per gli adulteri. Dicono alla lettera: “Nella Legge a noi Mosè comanda di lapidare siffatte”. Ai loro occhi non è più nemmeno una donna, un essere umano come loro. È qualcosa di indefinito. È il processo della deumanizzazione. Si priva l’altra persona di tratti e qualità umane in modo che non essendo più una di “noi” è possibile fare di lei qualunque cosa, nella più totale insensibilità.
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Gesù ricorre alla lingua dell’amicizia per descrivere il cuore della relazione dei credenti con lui (Gv 15,13-17). Lo fa, perché conosce l’amicizia. Nel vangelo si parla di tre suoi amici, Marta, Maria e Lazzaro (Gv 11). Cè una scena particolare che racconta questa amicizia: quando Marta e Maria ospitano Gesù in casa (Lc 10,38-42).
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Gesù entra a Cafarnao. Un militare, un ufficiale per l’esattezza, un centurione, gli si avvicina (Mt 8,5-13). È un mercenario a servizio di un re-fantoccio, il tetrarca di Galilea, messo lì dalla potenza coloniale romana. Il termine “centurione” non suona bene alle prime persone che ascoltano il Vangelo secondo Matteo. Hanno alle spalle la prima guerra giudaica e hanno assistito a tutta la brutalità di cui le truppe romane sono capaci. La parola ricorda quel tempo. Si crea una dissonanza: un militare di cui sanno di quale brutalità sia capace, si presenta come uno che supplica Gesù per il figlio che soffre. Non chiede la guarigione. Gli presenta la situazione e sta lì. Quasi a provocare nell’altro la compassione.
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