L’autorità di “nutrire” gli altri

Foto di Allison Astorga su Unsplash
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16 dicembre 2025

Dal Vangelo secondo Matteo - Mt 24,45-51 (Lezionario di Bose)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 45«Chi è il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? 46Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! 47Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. 48Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda», 49e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, 50il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l'aspetta e a un'ora che non sa, 51lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti».


“La parabola del servo che può vivere la fedeltà ma anche l’infedeltà”: questo il titolo della pericope odierna. Infatti è la stessa persona, lo stesso servo (“questo servo”: v. 48) che sa vivere la fedeltà ma anche l’infedeltà, che sa essere misurato e umano, ma può anche divenire arrogante, prepotente e violento. Non siamo di fronte alla personificazione di fedeltà e infedeltà in due personaggi differenti, ma alla possibilità di bene e di male da parte della stessa persona. A rivelare quella duplicità che è potenzialità di ciascuno di noi. 

Ciò che conduce il servo a un comportamento abusante nei confronti degli altri servi è la constatazione del ritardo del padrone: “Il mio padrone tarda a venire” (24,48). Credo che dietro a questa affermazione vi sia il rimando al peccato di idolatria in cui cadde Israele quando Mosè tardava a scendere dal monte dove aveva ricevuto le tavole della Legge. Poiché “Mosè tardava a scendere dal monte” (Es 32,1), i figli d’Israele caddero nel peccato di idolatria costruendo il vitello d’oro. Nel vangelo quel ritardo induce una vertigine, un’ebbrezza, un senso di impunità che scatena impulsi e istinti prima tenuti a freno dalla presenza del padrone o dal timore del suo arrivo improvviso. Segno di una libertà a scartamento ridotto, di un agire per paura. 

Il “servo” è investito di un’autorità che consiste in un servizio nei confronti dei domestici. Vi è qui un riferimento a chi nello spazio ecclesiale riveste posizioni di autorità. Il padrone lo ha “costituito su”, gli ha affidato un potere che si esplica nel “dare il cibo”, nel “nutrire” i membri della casa. 

Che significa oggi “nutrire” chi fa parte della comunità ecclesiale? Significa porsi a servizio dello sviluppo e dell’approfondimento della relazione dei battezzati con il Padre, nello Spirito santo per mezzo del Figlio Gesù Cristo. Questo il “ministero” (servizio) di chi nella chiesa è rivestito di autorità. 

Compito primario della chiesa è trasmettere l’arte della vita spirituale aiutando la formazione e la maturazione umana della persona. Le due dimensioni insieme, per non dividere ciò che Dio ha unito. Ovvero introdurre alla conoscenza delle Scritture, perché l’ignoranza delle Scritture, e massimamente dei vangeli, “è ignoranza di Cristo” (DV 18). 

Su questa base, si tratta di iniziare alla preghiera personale, alla lotta spirituale, al discernimento, ad abitare la solitudine e il silenzio per poter riconoscere la presenza del Signore in sé e negli altri. Ma poi si tratta di insegnare a pensare, perché pregare implica il pensare la vita davanti a Dio per vivere in obbedienza a Dio. Agostino è lapidario sull’essenzialità del pensare per la fede e la preghiera: “La fede, se non è pensata, non è nulla”. 

La formazione umana, richiesta da quel cristianesimo che nell’incarnazione riconosce il proprio cuore rivelativo, comporta l’introdurre all’arte dell’ascolto e delle relazioni, perché solo così si arriverà ad amare. Richiede l’iniziazione alla vita interiore e alla conoscenza di sé. E questo servizio lo può attuare solo chi tali dimensioni le vive in prima persona. Altrimenti, l’incarico di autorità può degenerare in pratica abusante.

fratel Luciano