Con i modi del Signore

Photo by Dan-Cristian Pădureț on Unsplash
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11 luglio 2021

Mc 6,7-13
XV Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù 7chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. 8E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient'altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; 9ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. 10E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. 11Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». 12Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, 13scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano


L’odierna pagina evangelica presenta l’invio in missione dei Dodici da parte di Gesù. Il testo presenta le disposizioni di Gesù ai discepoli prima del loro invio (Mc 6,7-11), quindi uno stringato resoconto della loro attività missionaria (Mc 6,12-13). Trova dunque realizzazione ciò che era stato preannunciato al momento della costituzione del gruppo dei Dodici. Quando cioè, chiamati a sé quelli che lui stesso voleva e aveva scelto (Mc 3,13), Gesù “ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14-15). Gli inviati a predicare e a far retrocedere il male curando e guarendo sono dunque coloro che Gesù stesso ha chiamato. La missione non è frutto dell’iniziativa personale, non è espressione del protagonismo del credente che si inventa avventuriero della fede o che intende “salvare il mondo” con le sue buone ed eroiche intenzioni e disposizioni. Il missionario è un chiamato: quindi dev’essere anzitutto una persona obbediente alla parola del Signore, disposto a rinnovare la propria chiamata giorno per giorno con l’ascolto quotidiano della parola di Dio. La missione dice dunque riferimento fondante a Colui che invia, prima ancora che rapporto con i destinatari dell’annuncio. Solo così la missione potrà essere sacramento della presenza e della venuta del Signore. Altrimenti sarà una mera manifestazione del protagonismo umano che, anche quando si esprime con maniere spirituali o pastorali, è in realtà profondamente mondano.

Il nostro testo specifica che i discepoli sono inviati “a due a due” (Mc 6,7). Il missionario non è un avventuriero isolato. Non solo egli agisce in obbedienza a un mandato, a nome di una chiesa, ma svolge la sua missione insieme ad altri. Il testo suppone il fatto che in due ci si può proteggere meglio da pericoli. Qoelet suggeriva che è “meglio essere in due che uno solo” (Qo 4,9). Inoltre essere in due dona saldezza alla testimonianza: nell’AT una testimonianza, per essere valida, si deve basare su almeno due testimoni (Nm 35,30; Dt 17,6; 19,15). Ma soprattutto quel non essere soli, bensì due (o più), è importante perché così si può vivere la relazione, la comunione e la carità. La vita insieme degli inviati, la loro carità, la qualità della loro relazione, sono già testimonianza missionaria che rende presente Cristo a coloro che essi incontrano. La missione non consiste anzitutto in attività, in un fare per gli altri, ma in una relazione, improntata a comunione e carità, tra gli stessi missionari. La fraternità degli inviati è la prima testimonianza che certifica la bontà del loro andare e annunciare. Inoltre, essere insieme in un viaggio missionario produce tensioni, mette a dura prova la propria capacità di sopportazione, di accoglienza, di ascolto, di rispetto, e dunque è ciò che può concretamente cambiare le persone. La relazione umana è elemento che aiuta il movimento di conversione reale del missionario: altrimenti, che credibilità può avere chi predica conversione agli altri e la trascura per sé? Prima dimensione costitutiva dell’invio in missione è dunque la fraternità che gli inviati sono chiamati a vivere.

Gesù inoltre, “dava loro potere sugli spiriti impuri” (Mc 6,7). Che significa? Semplicemente che l’inviato, restando legato al suo Signore con la fede e con l’ascolto obbediente della sua parola, può lasciar agire in lui la potenza stessa del suo Signore e dunque, instaurando relazioni autentiche con chi incontra, spandere benedizione. Nulla di magico o di scontato in quel potere che Gesù conferisce ai suoi: se infatti, questo invio è coronato da successo (“Essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”: Mc 6,12-13), altre volte essi falliranno e mostreranno di non essere all’altezza del compito ricevuto (Mc 9,18).

Le disposizioni che accompagnano l’invio (Mc 6,8-9) sono estremamente rigorose e mostrano che una seconda dimensione che riempie di contenuto la missione, oltre alla fraternità, è la povertà. Se sono rivolte ai Dodici, in realtà esse delineano anche i tratti perenni dell’azione missionaria della chiesa. E l’opera di annuncio del vangelo destinato anzitutto ai poveri deve svolgersi con sobrietà e povertà di mezzi. Il mezzo è già messaggio, e come potrebbe il vangelo rivolto a poveri, sofferenti e ultimi come destinatari privilegiati, essere annunciato con dispiegamento di mezzi e opere grandiose, ed essere affidato a messaggeri ricchi e potenti? Non sarebbe questa un’ipocrisia da parte dei missionari e un’umiliazione inflitta ai destinatari? Gesù “ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura, ma di calzare sandali e di non portare due tuniche” (Mc 6,9).

Se è vero che il rigore delle direttive di Gesù è tale che Gerolamo afferma che i discepoli sono mandati “pressoché nudi”, tuttavia occorre sottolineare che queste direttive (che riguardano la missione all’interno della terra di Israele) erano realmente praticabili, sicché la povertà e la precarietà in cui sono posti gli inviati non può essere elusa con interpretazioni simboliche o edulcorate. Gesù situa la missione cristiana all’interno del radicalismo evangelico. La povertà dei missionari fa emergere il fatto che la missione ha il suo senso non nel “conquistare anime” o nel far proseliti, ma nell’essere segno del Dio che viene e nell’avere come protagonista e soggetto il Risorto stesso. Senza essere legge da applicare sempre e dovunque o modello da copiare, le rigorose direttive missionarie dicono un’esigenza perenne della missione della chiesa: ogni epoca dovrà riformulare le forme della povertà della missione. Certo, quando Paolo si imbarcherà e viaggerà in nave per raggiungere la terra europea, dovrà maneggiare denaro e pagare il biglietto … Ma l’istanza di sobrietà e povertà rimane.

Pienamente parte di questa povertà è il fatto che Gesù non proibisce il superfluo, ma il necessario, ciò che potrebbe rendere la missione più efficiente, rapida, produttiva: provviste di cibo nella bisaccia, denaro nella borsa per far fronte a eventuali emergenze e bisogni che insorgessero. Gesù proibisce di avere due tuniche, ovvero di avere con sé la veste di riserva per il domani, proibisce il pane, il cibo povero per eccellenza. Decisamente, il punto di vista di Gesù non è quello dell’efficacia operativa! Al tempo stesso, la redazione marciana di questo discorso di Gesù contiene due “concessioni” che non si trovano nel più rigoroso testo parallelo di Matteo: il bastone e i sandali (Mc 6,8-9). In Matteo entrambi non sono permessi: “né sandali, né bastone” (Mt 10,10). Il bastone serve per sorreggersi mentre si guada un ruscello, per difendersi da un animale, per accompagnare il passo del cammino e i sandali proteggono la pianta dei piedi dai sassi, dai rovi, da altre insidie. Ci si può legittimamente chiedere se questa concessione, strana all’interno di un testo così radicale, non sia una maniera con cui il cammino degli inviati del Signore Gesù viene assimilato al viaggio dei figli d’Israele che nella notte pasquale hanno intrapreso l’esodo, il percorso di uscita dalla terra egiziana. Si dice infatti in Es 12,11 dando indicazioni su come mangiare l’agnello pasquale: “Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta” (Es 12,11). La missione, dunque, come memoria dell’esodo, come cammino salvifico.

L’invio in missione crea dei testimoni: gli inviati stessi devono far regnare su di sé le esigenze del vangelo. La loro stessa presenza dovrà essere annuncio e trasparenza di colui che li ha inviati. La missione non dovrà mai essere “contro”, anche quando gli inviati non saranno ascoltati o accolti (Mc 6,11): chiedere conversione e far retrocedere il male operando il bene, questo il loro compito (Mc 6,12-13). Dunque: proclamare le esigenze del vangelo e testimoniarne la grazia. Né i missionari potranno avanzare pretese o fare bizze, ma accetteranno l’ospitalità che verrà loro offerta (Mc 6,10). L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate, ma colui che ha “i modi del Signore” (Didaché XI,8).

Il discorso di Gesù suppone inoltre la vulnerabilità degli inviati, il fatto che la loro missione potrà incontrare ostacoli e fallire: gli inviati potranno essere non ascoltati né accolti. La loro parola potrà non solo non convertire ma anche suscitare un’alzata di spalle. È come se Gesù prevenisse gli inviati avvertendoli di questa possibilità che dunque essi dovranno mettere in conto. Né potranno scoraggiarsi o considerarsi falliti per questo. Il loro percorso dovrà continuare e sempre riprendere. Non era forse questo il mandato che il Signore aveva dato al suo profeta: quello di annunciare la volontà di Dio quale che fosse la reazione, positiva o negativa, dei destinatari del messaggio? “Ascoltino o non ascoltino – dice Dio ad Ezechiele – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro” (Ez 2,5). Potremmo parafrasare: ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che in mezzo a loro vi è un annunciatore della parola di Dio, un suo servo, un suo inviato. A quel punto il messaggio dell’inviato è la sua stessa persona, è lui stesso. L’annunciatore diviene lui stesso annuncio. L’evangelizzatore diviene lui stesso vangelo.