Il lavoro e la vita

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16 gennaio 2022

Fratelli, sorelle,

nella sua Regola, Benedetto parlando dei monaci dice: “i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli” (RB 48,8). A questo testo fa eco la nostra Regola di Bose quando scrive: “Tu lavorerai perché i padri e gli apostoli hanno lavorato per vivere del lavoro delle proprie mani” (RBo 24).

Il lavoro è dimensione costitutiva della vita monastica perché è anzitutto costitutivo della vita, della vita tout court. Può essere casuale, ma è significativo che la terminologia del vivere e della vita è la più ricorrente nel capitolo della nostra Regola dedicato al lavoro: ben otto volte in due brevi paragrafi. Del resto lavorare è essenziale per vivere. Certo, si lavora per vivere e non il contrario. La Regola specifica che il lavoro non deve diventare oppressivo o schiacciante ma deve sempre cercare e trovare un equilibrio con la vita in cella, con le relazioni fraterne, con la preghiera. Sappiamo come tra gli squilibri che affliggono il lavoro nella vita monastica vi è il rifugiarsi nel lavoro fino a farne l’unica dimensione gratificante e perseguirla in modo smodato ed eccessivo, ma vi è anche la pigrizia, una concezione minimalista e impiegatizia del lavoro che conduce a cadere in quello che la Regola chiama “dilettantismo” (RBo 24). In entrambi i casi, ciò che è in gioco e in crisi è ovviamente una dimensione più profonda della persona.

Il lavoro è essenziale proprio per l’equilibrio psicologico, affettivo e spirituale di una persona e lo manifesta anche. È essenziale per la sua umanità. La Regola ricorda che il concreto lavorare impedisce che la vita monastica diventi una “vita di privilegiati” (RBo 25), cosa possibile questa, anzi, certa, quando non si lavora più, o si lavora quando pare e piace, senza puntualità e senza orari, perdendo tempo e finendo in situazioni depressive o di scontentezza e di malumore che spesso si sfogano contro gli altri.

Ora, della vita monastica fanno parte attività di diverso tenore, e lì è importante guardarsi dal fare confronti e paragoni, valutando se stessi e gli altri in base a ciò che si fa, in base alla maggiore o minore remuneratività o appariscenza o produttività del lavoro svolto e giudicando o sminuendo il lavoro fatto da altri (RBo 25). Delle attività svolte alcune sono remunerate, come lavori professionali interni o esterni alla comunità, manuali o intellettuali che siano, e attività che remunerative non sono, almeno immediatamente, ma che sono costitutive della vita monastica stessa e che impegnano fratelli e sorelle con dispendio di energie e di tempo. La liturgia, la lectio divina, il servizio della Parola fatto in diverse modalità, e poi incontri e colloqui, come pure lavori interni alla comunità estremamente impegnativi come ospitalità e orto, e altre attività e servizi che sono esigiti dalla vita in quanto tale, come cucina e pulizie, e altro ancora.

Certo, sono esigiti da quella vita che è una “vita comune” e una “vita di ricerca di Dio” (RBo 25). Ma questo esattamente come in una famiglia dove, oltre al lavoro remunerato con uno stipendio dei genitori, vi sono un’infinità di attività necessarie all’andamento della casa e della famiglia e ovviamente non remunerate. Ma assunte con naturalezza, spontaneamente, volentieri, ovviamente, perché fondamentali per la vita che si vuole vivere. Ecco il senso dell’espressione “come loro” così ripetuta nel capitolo sul lavoro: “Sei un uomo come gli altri, lavorerai come loro” (RBo 24). Il problema è assumere questa vita come la propria vita e cercare di fare corpo ciascuno con gli altri anche con il proprio agire e lavorare. Senza dimenticare che nella vita comune si è chiamati anche a collaborare, a lavorare insieme, soprattutto in certi ambiti lavorativi, in determinati settori, in alcuni servizi, e dunque lavorare richiede anche lavorare su di sé, richiede l’esercizio di imparare la relazione, l’ascolto, il rispetto, la sopportazione, la pazienza. Si tratta di accettare che altri lavorino accanto a noi, ci affianchino, per poter trasmettere loro ciò che non può finire con noi perché una vita comune sopravvive al singolo. E la responsabilità è anche responsabilità verso chi verrà dopo di noi. Insomma, preliminare per ogni discorso sul lavoro in una comunità monastica è l’assunzione della vita monastica come vita, come la propria vita e poi la determinazione a formare un solo corpo con le persone che compongono la comunità.

Perciò, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede, solerti ed equilibrati nel lavoro. E tu, Signore, abbi pietà di noi.

fratel Luciano