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Prolusione del Priore di Bose

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Affresco,  Roma
Martirio di Stefano
Simposio ecumenico internazionale

Prolusione di ENZO BIANCHI, priore di Bose
Bose, 30 ottobre 2008

Introduzione

Chi rende testimonianza (ho martyrôn) alla verità, difendendola con le parole o con gli atti, può a giusto titolo essere chiamato «testimone» (mártys). Ma secondo la consuetudine dei fratelli colpiti dai comportamenti di quelli che hanno combattuto fino alla morte per la verità, non si usa «martire» (mártys), in tutta la forza di questo termine, se non per quanti nell’effusione del sangue hanno reso testimonianza (martyrésantas) al «mistero della pietà» (1Tm 3,16).

Queste parole di Origene (metà del iii secolo d.C.) nel suo Commento a Giovanni (ii,210) si prestano bene a introdurre una riflessione sul tema della testimonianza/martirio nella Bibbia. È noto infatti che i termini greci martyréo/martyría/mártys, che appartengono originariamente alla sfera del linguaggio legale con il valore di «testimoniare, fare una dichiarazione pubblica», hanno iniziato ad essere utilizzati come vocaboli tecnici per indicare il martirio solo nelle Passiones e negli Acta Martyrum del ii secolo, in coincidenza con la persecuzione diffusa dei cristiani da parte dell’impero romano. Nella versione dei lxx e nel Nuovo Testamento – con qualche rara eccezione – martyréo e affini sono invece utilizzati con il valore di «testimoniare, rendere testimonianza», così come la radice ebraica sottostante ‘ud (da cui ‘ed, «testimone»).

Sappiamo pure che nei vangeli secondo Marco (cf. Mc 14,55-56.59.63) e Matteo (cf. Mt 18,16; 26,65) il linguaggio della martyría è sempre limitato allo spazio legale, mentre in Luca (vangelo e Atti) esso assume anche un significato più largo, quello del rendere testimonianza a Gesù (cf. Lc 4,22; At 1,8) e alla resurrezione (cf. Lc 24,48; At 1,22; 3,15). Nel quarto vangelo, poi, questo vocabolario descrive la missione di Gesù e, di conseguenza, quella dei discepoli: il verbo martyréo, che ricorre ben trentatré volte, è utilizzato per esprimere riassuntivamente la testimonianza di Gesù resa al Padre (cf. Gv 5,36) – e viceversa (cf. Gv 8,18) – , alla verità (cf. Gv 18,37), alla luce (cf. Gv 1,7-8); si noti però che mai Gesù è definito mártys.

Ma a prescindere da queste considerazioni di carattere lessicale, mi pare più importante riflettere sulla realtà del martirio: quella di una testimonianza pubblica della fede in Dio e in Gesù Cristo data da uomini e donne, testimonianza che giunge fino alla morte violenta e che, a partire da una certa epoca, viene designata con il termine riassuntivo di «martirio». In questo senso è innegabile che le Sante Scritture presentino modelli di «martiri» ante litteram sui quali i credenti cristiani, fin dalle prime generazioni, hanno meditato per rinsaldare la loro fede.

Cercherò dunque di analizzare le più significative figure di testimoni/martiri presenti nella Bibbia, modelli esemplari che attestano la continuità della tradizione del martirio per i credenti della Prima e della Nuova Alleanza.

1. Testimonianza e martirio nell’Antico Testamento

a) Martirio e profezia
Secondo la tradizione giudaica, confluita per es. nel testo apocrifo Vite dei profeti – composto all’epoca della fine del secondo tempio ma trasmesso dai cristiani –, la sorte dei profeti autentici è quella di essere perseguitati. In particolare, il martirio e la morte violenta sono il sigillo per eccellenza della missione profetica, il culmine della testimonianza resa a Dio di fronte all’idolatria dominante e alla disobbedienza degli uomini alla sua volontà. È con questa consapevolezza che, nella liturgia espiatrice celebrata al ritorno dall’esilio, i leviti confessano che «[i nostri padri] si sono ribellati contro di te, o Dio, si sono gettati la Torah dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li ammonivano per farli tornare a te e ti hanno insultato gravemente» (Ne 9,26). Gesù stesso si porrà nelle parole e nei fatti in questo solco; e Stefano nel lungo discorso che precede la sua lapidazione chiede ai suoi aguzzini: «Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato?» (At 7,52).
Questa lunga storia si apre con Mosè, «servo del Signore» (Dt 34,5) duramente contestato e messo alla prova in vari modi dai figli di Israele durante il cammino nel deserto (cf. Es 17,1-7, ecc.). In una tradizione ripresa da Osea vi sono due versetti che, pur essendo di interpretazione molto incerta, sembrano testimoniare le sofferenze fino al sangue inflitte al grande profeta. Ve ne fornisco una traduzione letterale:

Per mezzo di un profeta il Signore fece uscire Israele dall’Egitto e per mezzo di un profeta lo custodì. Ma [Efraim] lo provocò fino all’amarezza: perciò il suo sangue ricadrà su di lui e il suo obbrobrio gli renderà il suo Signore (Os 12,14-15).

Ma il martirio dei profeti è attestato con certezza già da Elia, a metà del ix secolo a.C. Mentre fugge dalla persecuzione della regina Gezabele verso la montagna di Dio, l’Oreb-Sinai, al Signore che gli chiede: «Che fai qui, Elia?», egli risponde: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio dell’universo, poiché i figli di Israele hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1Re 19,9-10.13-14). La «colpa» dei profeti è quella di opporsi al potere idolatrico, fonte di oppressione economica e sociale per i poveri: è attraverso la loro difesa della giustizia che essi testimoniano la sovranità assoluta di JHWH e confessano la loro fede in lui fino al dono della vita.
Si potrebbero citare altri esempi di profeti perseguitati fino al martirio, tra cui spiccano quello di Uria (cf. Ger 26,20-23) e quello di Zaccaria, ricordato anche da Gesù (cf. 2Cr 24,17-22; Mt 23,35; Lc 11,51). Ma io vorrei soffermarmi solo sul caso paradigmatico di Geremia, vissuto a cavallo tra il vii e il vi secolo a.C. Tutto il suo ministero profetico può essere letto come un’ininterrotta passione, che nasce dal contrasto tra il suo annunciare la parola di Dio – la quale «è per lui causa di vergogna e di scherno tutto il giorno» (cf. Ger 20,8) – e il suo essere perseguitato dalle autorità religiose legittime (cf. Ger 18,18), al punto che egli si sente «come un agnello mansueto condotto al macello» (Ger 11,18). Il sacerdote Pascur lo fa fustigare e mettere in prigione (cf. Ger 20,2) e, in seguito alla sua profezia sul tempio, Geremia viene arrestato e riceve una sentenza di morte, sventata all’ultimo momento (cf. Ger 26).

Come già aveva fatto Zaccaria in punto di morte (cf. 2Cr 24,22), anche Geremia chiede a Dio di vendicarlo (cf. Ger 15,15). Dio però non interviene contro i suoi nemici, lascia che il profeta scenda allo she’ol della disperazione, lo mette a confronto con i falsi profeti senza che appaia con chiarezza l’autenticità della sua testimonianza: Geremia vedrà bruciare il rotolo su cui sono scritte le sue parole (cf. Ger 36,l-26), finirà in una cisterna fangosa rischiando la morte (cf. Ger 38,1-12) e sarà trascinato in Egitto, solidale col peccato del suo popolo (cf. Ger 43,1-7). Nei momenti tragici dell’esistenza di quest’uomo, Dio sembra abbandonarlo e rifiutargli la sua testimonianza; eppure Geremia dà sempre la sua testimonianza a Dio, gli rimane fedele fino alla morte fuori della terra santa. Una morte che, secondo la rilettura della tradizione giudaica, è un vero e proprio martirio: «Geremia morì a Tafni, in Egitto, lapidato dal popolo» (Vite dei profeti 2).

b) Il Servo del Signore

All’interno del nostro itinerario un posto particolare spetta alla misteriosa figura dell’‘eved Adonaj, il Servo del Signore descritto dal Deutero-Isaia a metà del vi secolo a.C., nei cosiddetti quattro «Canti del Servo» (cf. Is 42,1-9; 49,1-7; 50,4-11; 52,13-53,12). Si tratta di testi estremamente ricchi e complessi, che hanno ricevuto lungo i secoli numerose interpretazioni. Tra di esse si segnalano quella messianica individuale, già presente nel giudaismo e poi attestata con continuità dalla tradizione cristiana, e quella collettiva che vede nel Servo il popolo di Israele, inteso come personalità corporativa (cf. Is 49,3).

In quest’ultima ottica, all’interno di una sorta di processo istruito davanti ai gojim, il popolo esiliato e osteggiato è reso testimone dal Signore stesso. Per tre volte l’oracolo del Signore risuona con forza: «Voi siete i miei testimoni!» (‘edaj [mártyres secondo i lxx]: Is 43,10.12; 44,8). La testimonianza essenziale resa da Israele a Dio è quella della perseveranza pur in una situazione di estrema sofferenza. Nella sua apparente passività il popolo resta «il servo che Dio si è scelto» (cf. Is 43,10) e, in tal modo, fornisce una testimonianza pubblica attraverso la sua fede che resta salda anche in mezzo alle persecuzioni.

Ma i canti del Servo descrivono anche un profeta individuale. Ripieno dello Spirito di Dio, egli è investito della missione di «manifestare alle genti il mishpat» (Is 42,1), «giudizio radicale in nome dell’unico amore di Dio, e perciò giudizio di salvezza per tutti gli uomini» (Alberto Mello). La sua missione sembra però segnata soltanto dall’insuccesso: profeta respinto a causa della testimonianza resa alla parola di Dio, egli subisce ingiurie e persecuzioni; tuttavia continua a confidare in Dio e si dichiara disposto a testimoniare in tribunale davanti ai nemici (cf. Is 50,4-9). Nel quarto canto l’oltraggio riservato al Servo giunge al culmine, facendone «l’uomo dei dolori, familiare col patire» (Is 53,3), condannato a subire un’ingiusta morte violenta e una sepoltura tra gli empi (cf. Is 53,8-9). Come agnello afono l’‘eved Adonaj è condotto al macello (cf. Is 53,7), eppure la sua morte appare come un vero sacrificio di espiazione che permette la realizzazione del disegno di Dio. Proprio a causa della sua fine ignominiosa, infatti, egli vedrà la luce, sarà un segno per le moltitudini (rabbim), sarà fonte di giustificazione grazie alla sua intercessione per i peccatori (cf. Is 53,11-12).

Nella vicenda di questo martire anonimo c’è la testimonianza pubblica di fronte ai poteri mondani, la morte volontariamente accettata, il valore espiatorio del sacrificio e la conseguente benedizione che ricade su tutti gli uomini, tra cui vanno annoverati i suoi carnefici. Essi alla sua vista non possono non riconoscere: «Era trafitto dai nostri peccati, spezzato per le nostre iniquità … Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). Ecco l’assoluta unicità del Servo: egli, non imputando il peccato alle moltitudini ma prendendo su di sé la loro violenza, pone fine alla violenza; la colpa dei carnefici ricade sul Servo, il quale assume l’ingiustizia di cui è stato vittima e si interpone quale arbitro tra Dio e i peccatori, per chiedere a Dio misericordia e trasmettere il perdono alle moltitudini.
Come emerge da molti passi dei vangeli, Gesù deve aver pensato la propria vocazione più profonda alla luce di questa figura del Servo, assumendola come forma della propria vita, fino a interpretare attraverso di essa la propria fine. Non ha forse detto ai suoi discepoli poco prima di essere arrestato: «Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori” (Is 53,12)» (Lc 22,37)? Di conseguenza, la figura del Servo diventerà un riferimento imprescindibile in ogni riflessione cristiana sul martirio.

c) Il martirio dei Maccabei

Se facciamo un salto cronologico agli inizi del ii secolo a.C., l’epoca della persecuzione ellenistica, incontriamo il martirio affrontato per amore di Dio e della sua Legge da parte di alcuni fedeli (chassidim) e di alcuni sapienti (maskilim). La loro testimonianza, narrata dai libri di Maccabei e riletta teologicamente da Daniele, assumerà un valore esemplare per i cristiani oppressi dall’impero romano: non a caso i martiri Maccabei furono ben presto inseriti nei martirologi cristiani e la loro tomba ad Antiochia fu occupata dai cristiani che volevano onorarne la memoria.

Antioco iv Epifane (175-164 a.C.), re della dinastia dei Seleucidi, scatenò un’aspra persecuzione contro i fedeli alla Torah che si opponevano all’introduzione dei costumi pagani e dell’idolatria in Israele. L’abolizione della Torah, la sostituzione della festa delle Capanne con i Baccanali e infine l’introduzione del culto di Zeus nel tempio – evento definito «abominio della desolazione» (Dn 9,27; cf. 1Mac 1,54) – trovarono una fiera opposizione guidata dalla famiglia di stirpe sacerdotale dei Maccabei. Deprivata dei suoi elementi nazionalistici e dei suoi tratti di «guerra santa», visibili soprattutto nella figura di Giuda Maccabeo, questa opposizione rivela caratteristiche paradigmatiche per la prassi del martirio, come si evince da alcuni passi dei libri di Maccabei. Ai nemici che li attaccano in giorno di sabato

essi non risposero, né lanciarono pietra, né ostruirono i nascondigli, dichiarando: «Moriamo tutti nella nostra innocenza. Ci sono testimoni il cielo e la terra che ci fate morire ingiustamente». Così quelli si lanciarono contro di loro in battaglia ed essi morirono con le mogli, i figli e il bestiame, in numero di circa mille persone (1Mac 2,36-38).

Anche lo scriba Eleazaro si avvia prontamente al supplizio, dicendo sotto i colpi: «Il Signore sa bene che, potendo sfuggire alla morte, soffro nel corpo atroci dolori sotto i flagelli, ma nell’anima sopporto volentieri tutto questo per il timore di lui» (2Mac 6,30-31). Ma la testimonianza più impressionante e destinata a godere di un’enorme fortuna è quella dei sette fratelli e della loro madre, pronti a morire piuttosto che rinnegare la Torah (cf. 2Mac 7). Mentre vengono torturati uno a uno, attestano alla presenza del re che Dio darà loro consolazione, risuscitandoli a vita nuova ed eterna; che è bello morire a causa degli uomini per attendere da Dio il compimento della speranza di essere da lui resuscitati. Essi sacrificano la propria vita con parrhesia e piena fede nel Dio unico, che confessano come loro vendicatore.

Il senso della testimonianza di questi credenti è ben compreso da Daniele il quale, retroproiettando all’epoca del regno babilonese i fatti storici del suo tempo, assimila i martiri Maccabei ai tre giovani gettati nella fornace ardente da Nabucodonosor (cf. Dn 3,8-97); al contrario, giudica la rivolta armata come un tentativo fatto da mani d’uomo, «un piccolo aiuto» (Dn 11,34), incapace di fermare la persecuzione perché poco fiducioso nel vero aiuto, quello di Dio (cf. Dan 2,34; 8,25). Egli riconosce come testimoni di Dio «quei sapienti (maskilim) che ammaestreranno le moltitudini, ma cadranno di spada, saranno dati alle fiamme, condotti in schiavitù e oppressi per molti giorni … Alcuni di essi cadranno perché tra di loro ve ne siano di quelli purificati, lavati, resi candidi fino al tempo della fine» (Dan 11,33.35). La loro speranza indefettibile è quella della resurrezione: per questo Daniele può affermare che «risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre» (Dan 12,3).

Questi ultimi elementi sono ormai molto prossimi alla concezione cristiana del martirio. Potremmo dire che manca una sola cosa, quella essenziale: l’evento e la persona di Gesù Cristo, causa di vita e di morte per i suoi discepoli. Ma prima di passare alla seconda parte della mia riflessione vorrei leggere un ultimo brano, tratto dal libro della Sapienza, composto alle soglie dell’era cristiana. L’autore, paragonando la sorte dei giusti e quella degli empi, scrive parole che costituiscono un trait d’union ideale con quanto seguirà:

I giusti che muoiono sono nella mano di Dio, nessun tormento può colpirli: agli occhi degli stolti sono ritenuti dei morti, la loro scomparsa giudicata una disgrazia, ma essi sono nella pace per sempre. Se agli uomini sono sembrati tribolati, essi hanno sperato in una vita senza fine: dopo una breve sofferenza ricevono una grande ricompensa … Nel giorno della visita del Signore risplenderanno, brilleranno come scintille di fuoco, giudicheranno le genti, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro (Sap 3,1-5.7-8).

2. Testimonianza e martirio di Gesù di Nazaret

Vorrei affrontare il tema della testimonianza/martirio nel Nuovo Testamento da un’ottica particolare. Si è soliti ripetere che nel Nuovo Testamento sono narrati tre episodi di martirio: la decapitazione di Giovanni il Battista (cf. Mc 6,17-29), la lapidazione di Stefano (cf. At 7,55-60) e la crocifissione di Gesù. Ma se nei primi due casi il carattere di martirio è evidente, le cose stanno un po’ diversamente per la morte di Gesù. Se infatti è vero che attraverso una lettura di fede e teologica si è giunti a interpretare la morte di Gesù quale sacrificio di espiazione (cf. Mt 26,38; 1Pt 2,24-25), quale «principio normativo per discernere la verità del martirio cristiano» (Bruno Maggioni), resta altrettanto vero che nella sua vicenda storica egli ha conosciuto la morte del maledetto attraverso una fine vergognosa, attraverso l’anti-sacrificio per eccellenza: la morte in croce. Per la Scrittura questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal legno»: Gal 3,13; cf. Dt 21,23), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini; è la mors turpissima crucis (Origene, Commento a Matteo xxvii,22), il supplizio estremo inflitto a chi è stato giudicato nocivo alla polis dall’autorità politica romana e nemico della comunità dei credenti dall’autorità religiosa legittima.

Cos’è accaduto a Gerusalemme la vigilia del sabato di Pasqua, il 7 aprile dell’anno 30? Gesù, un galileo che aveva radunato attorno a sé una comunità di pochi uomini e alcune donne coinvolti pienamente nella sua vita itinerante, ritenuto rabbi e profeta da questi discepoli e da un numero più ampio di simpatizzanti, è stato condannato e messo a morte mediante la crocifissione. Questa fine fallimentare è subito apparsa uno scandalo – «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor 1,23), dirà Paolo –, un ostacolo per la fede in lui, soprattutto quando si cominciò a confessarlo Messia di Israele e perciò Figlio di Dio, da Dio inviato per annunciare la venuta del suo Regno. Ecco perché, ancora all’inizio del ii secolo d.C., il giudeo rabbi Tarfon dichiara nel dialogo con il cristiano Giustino: «Noi sappiamo che il Messia deve soffrire ed essere condotto come pecora (cf. Is 53,7); ma che debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso e ignominioso, attraverso la morte maledetta dalla Legge, noi non possiamo neppure arrivare a concepirlo» (Dialogo con Trifone 90,1). Non è un caso che alcuni gruppi di cristiani finiranno per negare che Gesù sia morto in croce, ed è altamente significativo che per il Corano Gesù è stato sostituito all’ultimo momento da un altro uomo perché non era possibile una morte simile per il il Messia (cf. Sura iv,157).
Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il crocifisso colui che «ha narrato Dio» (cf. Gv 1,18); anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce, Gesù «ha reso testimonianza alla verità» (cf. Gv 18,37: verbo martyréo), trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato possibile che un uomo appeso a una croce diventasse colui sul quale i cristiani tengono fissi lo sguardo come Salvatore e Signore? Ovvero: si può giudicare la sua morte come un martirio? Credo che per rispondere a questa domanda occorra interrogarsi sul perché Gesù è stato ucciso e su come egli ha affrontato la prospettiva della sua imminente morte violenta. Ha affermato Agostino: «Martyres non facit poena sed causa» (Esposizioni sui Salmi 34,ii,13), ossia «ciò che rende martiri non è il supplizio ma la causa della morte». Ebbene, qual è stata questa causa, nel duplice senso di causa storica e di principio interiore profondo che ha animato l’agire di Gesù?

I vangeli si preoccupano di dirci chiaramente che Gesù è andato verso la morte non per caso né per necessità, ossia a motivo di un destino incombente su di lui. No, Gesù non è stato arrestato casualmente: lui stesso aveva intravisto la propria fine, la fine che era toccata a tutti i profeti, la fine fatta dal suo maestro Giovanni il Battista solo pochi anni prima, la fine che era l’esito dell’opposizione crescente verso di lui da parte del potere religioso. Non si dimentichino in proposito le sue invettive contro quanti edificavano le tombe ai profeti, facendosi in tal modo solidali con chi li aveva uccisi (cf. Mt 23,29-31; Lc 11,47-48), e il suo lamento su Gerusalemme, che «uccide i profeti e lapida quelli che le sono inviati» (cf. Mt 23,37; Lc 13,34). Ma il suo non era neanche un destino ineluttabile: Gesù restava libero di fronte al cerchio che si stringeva attorno a lui, libero di fuggire e tornare in Galilea, oppure di terminare a Gerusalemme, nel tempio, quell’itineranza e predicazione alla gente iniziata nelle sinagoghe e nelle piazze dei villaggi.

Né caso, né necessità: Gesù va verso la morte nella libertà e per amore, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (eis télos: Gv 13,1). Egli aveva detto che «era necessaria» (deî: Mc 8,31 e par.) la sua passione, ma lo era di una «necessità» precisa, innanzitutto umana, sulla quale avevano già meditato i sapienti di Israele: «in un mondo di ingiusti, il giusto può solo essere osteggiato, perseguitato e, se possibile, ucciso», come attestano i primi due capitoli del libro della Sapienza. E la storia conferma questa necessità intraumana: chi ha sete di giustizia, la vive e la predica, incontra ostilità e rifiuto, ieri come oggi. Gesù avrebbe potuto tacere o passare dalla parte degli ingiusti: allora l’ostilità verso di lui sarebbe cessata. Continuando invece ad essere fedele alla volontà di Dio, continuando a passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38), poteva solo preparare il suo rigetto, da parte del potere romano, che vedeva in lui una minaccia alle pretese totalitarie dell’imperatore, e da parte del potere religioso giudaico, che non sopportava il volto di Dio narrato da Gesù. Così la necessità umana diventa anche necessità divina: non nel senso che Dio, suo Padre, lo voglia in croce, ma nel senso che l’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che chiede di vivere l’amore fino all’estremo, esige una vita di giustizia e di amore anche a costo della morte violenta.

E qui è fondamentale ribadire che l’assunzione da parte di Gesù di questa fine tragica non è mai andata disgiunta dalla sua fede nel Dio che viene a salvare il giusto, che non abbandona per sempre il suo amico nelle mani degli empi (cf. Sal 37,28). Sì, la rivelazione sempre più chiara del futuro che lo attendeva è stata vissuta da Gesù nell’adesione fiduciosa e nella speranza riposte nel Dio che interviene, nel Padre che risponde: l’ultima parola sarebbe toccata a Dio, che certamente avrebbe rialzato dai morti il suo Figlio amato! In altre parole, la fede di Gesù nel Regno veniente e la sua comunione con Dio e con i fratelli sono rimaste sempre salde e hanno sostenuto e portato a compimento il suo amore: anche di fronte alla morte e nella morte Gesù ha continuato ad amare i fratelli e ad accettare di essere amato da loro, ha continuato a credere nell’amore di Dio.

E così Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte a causare la decisione del Padre di richiamarlo dai morti. Davvero la resurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: resuscitandolo dai morti Dio ha dichiarato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato testimoniato tutto ciò che è essenziale per conoscere lui. Ecco in cosa consiste «la testimonianza di Gesù» (he martyría Iesoû: Ap 1,2.9; 12,17; 19,10; 20,4), come la definisce il veggente dell’Apocalisse; ecco ciò che fa di lui «il testimone fedele» (ho mártys ho pistós: Ap 1,5; 3,14), colui che dalla sua croce gloriosa insegna ai suoi discepoli come affrontare tribolazioni e sofferenze per il Vangelo nella fedeltà e nell’amore.

Conclusione. Testimonianza e martirio dei cristiani
Ha scritto Bruno Maggioni: «Il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù». Ecco ciò che contraddistingue il martire cristiano, la sua radicale specificità. È sotto questa luce che possiamo ripercorrere per sommi capi la testimonianza data dai credenti in Gesù Cristo, quale ci è presentata dal Nuovo Testamento:

  • Stefano che prima di morire, a imitazione del suo Signore, chiede a Dio il perdono per i suoi carnefici (cf. Lc 23,34; At 7,60);
  • Giacomo, fatto uccidere di spada dal re Erode (cf. At 12,2), nipote di quell’Erode che aveva perseguitato Gesù (cf. Lc 23,7-12);
  • Pietro, «testimone (mártys) delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi» (1Pt 5,1);
  • Paolo, che nella fede esclama: «Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,10);
  • Antipa, che nell’Apocalisse è definito da Cristo «il mio fedele testimone» (ho mártys mou ho pistós: Ap 2,13); infine, sempre nell’Apocalisse, la moltitudine di «quelli che vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14), «che hanno vinto l’Accusatore grazie al sangue dell’Agnello e alla parola del loro martirio (ho lógos tês martýrias autôn)» (Ap 12,11).

Dove la memoria di Cristo si fa autentica ed efficace, là il cristiano deve sapere che diventa possibile bere il calice della morte violenta, come Gesù aveva preannunciato a Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,38). Il martirio non è un progetto per cui tramare, non è neppure un progetto di santificazione propria, ma è un puro dono di Dio in Gesù Cristo. Sempre vale la pena di vivere e di morire per Gesù, e il martirio è l’atto per eccellenza attraverso cui il cristiano depone la sua vita per Cristo, è l’evento puntuale attraverso cui testimonia che egli appartiene solo al suo Signore, che l’amore di lui e per lui vale più della vita (cf. Sal 63,4). Sì, come scriveva Ignazio di Antiochia nel suo cammino verso il martirio:

Allora sarò veramente discepolo del Signore, quando il mondo non vedrà più il mio corpo, perché nel martirio comincerò ad essere discepolo (cf. Ai romani IV,3; V,3).

Enzo Bianchi
Priore di Bose