L'architettura riscopre il tempo - Avvenire 3 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Avvenire 3 giugno 2017
di LEONARDO SERVADIO

Abitare, celebrare, trasformare: un convengo atipico quello che si è aperto giovedì a Bose. A differenza delle quattordici edizioni precedenti, questo in- contro internazionale liturgi- co e architettonico non si è focalizzato su una specifica parte della progettazione per l’edificio chiesa. L’ha considerato invece nella sua complessità diacronica, storica, generativa e dinamica. Perché, come nell’aprire i lavori ha evidenziato Enzo Bianchi, il fondatore del monastero di Bose, la chiesa edificio esprime in ogni tempo e in ogni luogo la comunità per la quale è costruita e dalla quale è abitata. Ne è un poco come un vestito tagliato su misura: per forza di cose concepito secondo la sensibilità del momento e i gusti di chi lo indossa,  restando sempre del pari universale ma anche individuale.

E, ha evidenziato il teologo Dario Vitali, il modo di “fare” chiesa è mutato molto nel tempo, passando dalla condizione di assemblea concelebrante attorno a un altare centrale, com’era in epoca paleocristiana, sino a rivestirsi via via di maggiore carica gerarchica mentre l’altare, luogo principe del celebrare, veniva spostato verso l’abside dell’aula basilicale ponendo una separazione tra presbiterio e navata, fino a raggiungere la configurazione che esprime la condizione di potere acquisito dalla Chiesa dal tempo del Sacro Romano Impero. Ma non v’è, nel passato, epoca in cui tanto s’è dubitato della validità di questo che è il suo volto pubblico, quanto se ne dubita oggi: eppure, come notava Enzo Bianchi, anche oggi vi sono tante opere architettoniche di valore, spesso ignorate oppure mal interpretate. Come può essere il caso della recente chiesa bergamasca di San Giovanni XXIII, degli architetti Zublena e Traversi con opere d’arte di Andrea Mastrovito e Stefano Arienti che compongono un tutto armonico. Qui la luce spiovente disegna un ambiente di grande potere suggestivo sulla cui parete di fondo si aprono tre vetrate a mo’ di abside, dominate al centro dalla figura del crocefisso. Ma ecco che, pur poco dopo il completamento dell’opera, i fedeli hanno sentito la necessità di aggiungere alcune sta- tue in gesso incongrue con l’insieme.

È una delle molte manifestazioni dei problemi che riguardano la gestione delle chiese nuove, quanto di quelle storiche. Come far sì che la dignità che esse sono chiamate a rappresentare si traduca in espressioni visibili di bellezza, consone al tempo presente ma non immemori del passato? E che la comunità possa sentirsi in rapporto armonico con le chiese che abita e da cui è rappresentata?

Su questi problemi mira a incidere la discussione attivata col CLI lab (laboratorio Convegno Liturgico Internazionale) cui sono stati chiamati giovani progettisti e artisti perché riprendano a studiare lo spazio per il culto a partire dalle domande fondamentali che esso solleva nell’animo umano e che attengono alla collocazione e al significato della chiesa nello spazio urbano, al suo raccordo e alla sua distinzione rispetto a esso, al significato dell’abitarlo qui e ora: tema, quest’ultimo, su cui ha parlato Carla Danani, in merito alle prospettive filosofiche dell’abitare. Abitiamo l’ambiente ma ne siamo anche abitati, in una relazionalità circolare per la quale sin dall’origine apprendiamo dall’ambiente attraverso la nostra presenza corporea, mentre del pari lo condizioniamo: ragione per la quale ne siamo inevitabilmente responsabili. E quel che vi compiamo, a sua volta compirà su di noi. Il tema, dagli immediati risvolti ecologici, si riferisce anche al problema dell’identità della comunità, che si riflette nel luogo che essa abita e, abitandolo, la conforma.

Don Valerio Pennasso, responsabile del- l’Ufficio beni culturali e edilizia di culto del- la Conferenza Episcopale Italiana ha evidenziato la necessaria responsabilità e adeguatezza cui sono chiamati tutti coloro che sono coinvolti nelle azioni compiute sulla chiesa, dal momento della sua progettazione a tutto il tempo del suo restare quale luogo abitato dalla comunità: di qui la necessità di una progettazione che pensi non solo al risultato immediato, ma al fatto che l’edificio resta e richiede manutenzione, cura, adeguamento al trascorrere del tempo, al cambiare stesso delle comunità che lo abitano. Ne discende che lo spazio della chiesa è inevitabilmente dinamico e trasformativo, non solo perché si pone co- me “altro” rispetto a quello della vita di tutti i giorni, ma anche perché accompagna le comunità che vi si alternano, secondo un ritmo che diviene tanto più rapido oggi, quando uno stesso luogo può essere abita- to da comunità totalmente differenti nel giro di pochi anni, a seguito delle mutazioni demografiche dei quartieri.

La dinamicità dello spazio della chiesa è stata graficamente illustrata da Aaron Werbick e Gerald Klahr, riguardo alla chiesa di St. Martin a Stoccarda. Costruita nel 1936 e rimasta quale luogo di memoria storica e di valore identitario per generazioni, dal 2006 è stata aperta alla sperimentazione perché servisse quale spazio di pubblica utilità. I due progettisti hanno spiegato come in diverse fasi abbiano proposto anzitutto di far esperire che quella chiesa non dovesse re- stare “imbalsamata”, ma potesse cambiare pur mantenendo il proprio valore di ancoraggio storico e identitario. In una prima fase è stato aperto un inedito percorso di accesso laterale, che col semplice cambio di direzione portava una prima istanza di mutamento; in successive fasi sono state poste nuove installazioni composte da assi lignee che hanno dato luogo a diverse conformazioni tra presbiterio e navata, fino a porsi come ponte tra interno della chiesa e spazio antistante. Il tutto in un continuo dialogo con la comunità che sulle prima ha accolto con perplessità le proposte, poi vi si è impegnata attivamente e in modo propositivo. Così, se l’edificio in quanto contenitore restava invariato, una serie di elementi di contorno variavano consentendone un utilizzo diversificato, per eventi e momenti di- versi, extra liturgici.

È stato un modo di conoscere ex novo uno spazio consueto e di riabitarlo attraverso le trasformazioni esperite come momento riappropriativo. Nelle variazione, la comunità si è riappropriata del tempo, la dimensione su cui sembra più difficile incidere.

Se in opere come quella di Stoccarda le trasformazioni sono avvenute in pochi anni, tra il 2015 e il 2016, non v’è chiesa al mondo che non sia stata trasformata nei secoli, ovvero che non si ponga come luogo dinamico. La questione dunque è questa: come procedere perché questo dinamismo sia consciamente vissuto e partecipato dalla comunità che, abitando la chiesa, ne è responsabile?